Roma. Dopo aver ricevuto i vertici dell’Anm al Quirinale, la sensazione è che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sarà tutt’altro che acquiescente di fronte al golpe politico della riforma Alfano. «L’autonomia e l’indipendenza della magistratura costituiscono principi inderogabili in rapporto a quella divisione tra i poteri che è parte essenziale dello Stato di diritto», ha assicurato il presidente della Repubblica di fronte ai dirigenti del sindacato dei giudici. Ma il dovere di cronaca impone di dire che quando il Colle riceve i rappresentanti delle toghe nelle sue stanze, nessuno si è ancora premurato di inoltrargli il disegno di legge approvato in Consiglio dei ministri lo scorso undici marzo. Una trascurabile dimenticanza che non è imputabile al dicastero di via Arenula. Il ministero ha comunicato di avere girato nottetempo il ddl a Palazzo Chigi. Ma confidando invano nella stretta vicinanza geografica, e semmai nella prodigiosa sveltezza che garantisce alla macchina dello Stato il doppio clic del mouse, il provvedimento è rimasto adagiato negli uffici del premier, dove da tempo si registra il tutto esaurito per via dei curiosi casi dell’illustre condomino. Come che sia, giusto in tempo per la conclusione del meeting al Quirinale, il testo infine approda sulla scrivania di Napolitano. Ma tanta suspense non ha sortito gli effetti sperati, che nella nota diffusa dal Quirinale sono improntati a una forma morbida, ma dal contenuto deciso. «ll capo dello Stato – si legge nel documento a margine dell’incontro con l’Anm – ha riaffermato la legittimità di interventi di revisione di norme della Seconda Parte della Costituzione che possano condurre a una rimodulazione degli equilibri tra le istituzioni quali furono disegnati nella Carta del 1948». Ma il facile appiglio della “rimodulazione”, viene sottratto al fuoco di fila pidiellino prim’ancora che divampi in qualche esternazione di Cicchitto, o chi per lui. Napolitano sottolinea infatti che la revisione della Carta «può risultare convincente in quanto comunque rispettosa della distinzione tra i poteri e delle funzioni di garanzia». Parole che lasciano soddisfatti i vertici dell’Associazione nazionale magistrati, che il 16 marzo scorso, appena varata la riforma Alfano, avevano richiesto un incontro con il presidente della Repubblica, tramite una lettera firmata dal presidente Luca Palamara. I dirigenti del’Anm hanno rappresentato al Quirinale tutto il loro disagio per una riforma che mira alla scientifica disgregazione del potere giudiziario, che «rischia di minare in radice l’indipendenza e l’autonomia» dei magistrati. Un progetto di eversione, che ha mostrato il suo autentico volto in seguito all’improvvisa comparsa dell’emendamento sul processo breve, che tanto ha nociuto alla credibilità del delfino Alfano, e per niente alla cavillosa fantasia degli avvocati del premier. Ma all’ordine del giorno, c’era anche la pericolosa atmosfera sediziosa, lanciata spada in resta dal Guardasigilli nei giorni scorsi: riforma a furor di popolo. «Abbiamo espresso al presidente – racconta Palamara all’uscita dal Quirinale – la nostra forte preoccupazione anche per il clima di manifestazioni di piazza in prossimità dei tribunali e anche nelle aule di giustizia, che rischiano di minare la serenità e l’equilibrio dei giudici chiamati a decidere importanti controversie». «La posizione dell’Anm – ha aggiunto – non è di chiusura corporativa ma di volontà di mantener fermi quei principi che riteniamo capisaldi dello Stato di diritto e che sono a garanzia e tutela dei cittadini come l’autonomia e l’indipendenza della magistratura che riteniamo fortemente alterata nell’eventuale approvazione del disegno di legge sulla riforma costituzionale della giustizia». Ma i vertici del sindacato dei giudici non si sono limitati a esprimere sconcerto. E anzi, ammirati dai nobili propositi costituenti del ministro della Giustizia, hanno voluto illustrare al capo dello Stato il proprio modesto contributo. Per sveltire i processi, hanno fatto sapere, gioverebbero alquanto la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, l’informatizzazione della giustizia, e maggiori risorse. «Abbiamo espresso a Napolitano – ha ribadito il presidente dell’Anm – i nostri timori anche per la riforma per legge ordinaria che per la disorganicità rischia ulteriormente di danneggiare il processo, in particolare quello penale». Ma il presidente dell’Anm ha riservato parte dei colloqui con il presidente della Repubblica, al simpatico effetto
Forum divampato tra gli scranni parlamentari: gli interventi di alcune comparse che avevano mandato a memoria il copione dei giudici che non pagano mai i loro errori, a differenza dei cittadini. «Ci siamo soffermati sul tema della responsabilità civile dei giudici che riteniamo sia stato malposto ai cittadini in quanto non è vero che il magistrato se sbaglia non paga», conclude Palamara. E seppure la nota del Quirinale preannuncia vita dura per il ddl Alfano, va detto che il tutto accade mentre nel resto dei Paesi del mondo, infuria la bolgia assordante di guerre, catastrofi naturali e rivoluzioni. Nè stupirebbe che di fronte alla sconfitta più cocente, il premier mostrasse cuore da statista: «Il mio regno, il mio regno per un cavillo!» (f.l.d)
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Riforma o vendetta?
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