«Sono qui per cercare un nuovo inizio fra gli Stati Uniti ed i musulmani nel mondo, basato sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto. E sulla verità: America e Islam non devono essere in competizione. Invece, si sovrappongono e condividono principi comuni, di giustizia e progresso, di tolleranza e dignità di tutti gli esseri umani. Certi cambiamenti non avvengono in un giorno, ma dobbiamo provarci. Gli eventi in Iraq hanno ricordato all’America la necessità di usare la diplomazia e creare consenso internazionale per risolvere i nostri problemi ogni volta che è possibile». Le parole pronunciate dal presidente Barack Obama all’università del Cairo, nel giugno di due anni fa, appaiono oggi rilucere di un alone profetico. Nell’incredulità dell’opinione pubblica internazionale, e in modi e circostanze del tutto imponderabili ai più occhiuti apparati di intelligence dello scenario globale, il mondo assiste da qualche settimana con un misto di sgomento e ammirazione a quello che molti definiscono ormai il 1848 nordafricano. Ed è giocoforza domandarsi quanto la politica della mano tesa del presidente americano, aspramente criticata da quanti avrebbero preferito proseguire la guerra contro il Male dell’amministrazione Bush, abbia potuto influire proprio su quello che tutti oggi battezzano come il «nuovo inizio» tanto atteso, l’avvento della rivolta popolare in Libia, Egitto e Tunisia. È di questo avviso Karin Mezran, direttore del Centro Studi Americani presieduto da Giuliano Amato: «Non c’è dubbio. Il discorso tenuto da Obama ad Al-Azhar ha segnato l’origine della rivoluzione nordafricana in quanto ha sancito una nuova alleanza tra islam moderato e Stati Uniti in seguito al clima di scontro ingenerato negli anni della presidenza Bush. La popolazione ha avvertito in quell’appello al dialogo una vera svolta, perché è cresciuta, soprattutto nelle frange giovanili che sono state protagoniste dei rivolgimenti, la percezione di avere trovato negli Usa un alleato decisivo contro la tirannide». Di segno opposto è invece la disanima dell’ex ambasciatore ed editorialista del Corriere della sera, Sergio Romano. «Le parole di Obama al Cairo erano state sagge ed equilibrate, ma da queste il popolo arabo non ha tratto alcuna ispirazione. Innanzitutto va notato che l’attuale presidente americano si rivolgeva allora alle autorità egiziane contro cui è poi scattata la rivolta. E in secondo luogo, i fatti nordafricani dimostrano semmai come le tesi neocon sostenute e divulgate in Occidente nel corso dell’amministrazione Bush non fossero rispondenti alla realtà. In Libia come in Egitto, non è stato il fondamentalismo islamico a organizzare il dissenso e a farlo esplodere in un grande movimento di massa. Si è trattato piuttosto di sommovimenti della società civile e moderata, nient’affatto guidata da istanze religiose totalizzanti, che si è levata piuttosto per affermare la propria voglia di democrazia e di libertà. La caccia al terrorismo, la guerra santa contro il Diavolo islamico, ha accecato l’Occidente. Con il risultato che ciò che accade oggi nei Paesi arabi, ci giunge sorprendente nonostante sia il compimento di fermenti culturali iniziati da decenni». Sul grande contributo offerto dai giovani nordafricani alla causa della rivoluzione, concorda Mezran: «Nella mano tesa di Obama, la gioventù islamica avvezza alle nuove tecnologie ha riconosciuto l’affidabile controparte di una comunicazione rimasta per molto tempo clandestina nei circuiti della virtualità. L’interscambio ha prodotto alla lunga nella gente della rete la sensazione di poter essere massa critica decisiva nelle sorti dei loro Paesi. E così pensieri, opinioni e posizioni di ostilità nei confronti della dittatura, sono precipitate da internet alla realtà, dai forum alle piazze». Ma anche il direttore del Centro Studi Americani evidenzia come «l’elemento religioso per anni scongiurato dopo l’11 settembre si è manifestato come del tutto marginale nelle rivolte». Un aspetto sul quale fornisce chiarimenti l’ex ambasciatore Sergio Romano: «Presentato come la madre di tutte le minacce, il terrorismo di Al Qaida e le sue velleità egemoniche sulla società araba escono ridimensionati. Le dinamiche interne dell’Egitto, protagonista di un boom demografico iniziato due decenni fa, avevano già creato le premesse della rivolta. A partire dall’impennata dell’alfabetizzazione e della familiarità con le nuove tecnologie, era nata da tempo in Egitto una società di giovani uniti da alcune caratteristiche comuni: tanti, diplomati e con un telefonino in tasca». L’estremismo islamico ha avuto scarsa voce in capitolo, spiega Romano, «perché in realtà gli atti terroristici erano messaggi recapitati a dittatori come Mubarak, Re Hussein e Ben Ali, che erano i loro veri nemici. L’Islam estremista intendeva mostrare la vulnerabilità dei Paesi occidentali». «Non è facile individuare il cerino che ha incendiato la sterpaglia», osserva Karim Mezran, «ma è certo che questa sterpaglia si estendesse già copiosa nei luoghi della rivolta. Adesso l’Occidente farà bene a seguire con attenzione gli eventi, sebbene sia da escludere qualunque intervento armato in Nord Africa. Manca una leadership forte, e dunque la situazione va monitorata giorno per giorno, specia quella libica, dove i Paesi occidentali potrebbero concedere un salvacondotto a Gheddafi per evitare ulteriori spargimenti di sangue e favorire la transizione democratica». Sul ruolo che il presidente americano ha svolto nello scacchiere mediorentiale, Sergio Romano avverte che «la Casa Bianca ha ereditato il pesante fardello della dottrina bushiana, e un paio di guerre che Washington ha dovuto gestire nonostante le posizioni diametralmente opposte di Obama». «Sebbene oggi non abbia senso rimproverarci per la nostra miopia, va ammesso che l’idea neocon di ribaltare l’intero scacchiere mediorentale, la strategia della guerra al terrore e di Israele come unico grande alleato, fosse dannosa oltreché inutile. Accecati da quelle tesi prefabbricate ci siamo persi il dato più importante: frattanto gli arabi erano cambiati». (f.l.d)
Da Liberal 1 marzo 2011
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