mercoledì 9 marzo 2011

Carta canta: diciannove milioni di italiani a rischio povertà, ma il partito del Family Day se ne frega di brutto

Roma. «Il piano delle Acli sarebbe un ottimo punto di partenza per rimediare alla totale insufficienza delle politiche governative contro l’enorme disagio sociale che coinvolge tutto il Paese. La proposta potrebbe dare senso alla social card, trasformandola in un ponte tra il paternalismo compassionevole e serie politiche di sussidio a tutela dei diritti sociali. Ma la prematura bocciatura del piano da parte del ministro Sacconi non sorprende. È la conferma che il popolo del Family Day, alla prova dei fatti per le famiglie fa poco o nulla». Storico, professore di Scienze dell’amministrazione all’Università degli studi del Piemonte Orientale, Marco Revelli presiede dal 2007 la Commissione di indagine sull’esclusione sociale (Cies), esperienza lavorativa confluita in un prezioso saggio edito di recente da Einaudi, significativamente intitolato Poveri noi.
Professore, le Acli hanno proposto ieri un Piano nazionale a favore di un milione di poveri. Come valuta il progetto?
È una proposta intelligente perché si basa sull’indicatore Istat di povertà e non su scelte discrezionali come quelle che a oggi hanno guidato le politiche tremontiane. E in più impegna stato e cittadino disagiato in un patto reciproco: sostegno e servizi base fino al reperimento di un impiego dal salario sufficiente. Un buon inizio, ma un’operazione non risolutiva, a guardare i dati Istat.
Ci spieghi pure.
Se circa metà delle famiglie assolutamente povere possono essere inquadrati in una tipologia familiare che presenta genitori disoccupati e ai margini della vita sociale, c’è un’altra metà che non riesce a sopravvivere nonostante uno, o entrambi i coniugi siano occupati. Ciò significa che il minimo sindacale per andare avanti spesso non può essere coperto dal reddito da lavoro.
E nel suo “Poveri noi” parla di dati terribili: 19 milioni di italiani tra poveri assoluti, impoveriti, e individui a rischio. Ci parli di loro.
Nel nostro Paese ci sono 19 milioni di persone che non possono essere definite tecnicamente povere per il livello di reddito e di consumo ma che portano le stigmate della minaccia di povertà. Ci sono 4 milioni di persone che hanno difficoltà ad arrivare alla fine del mese, 3 milioni e mezzo di individui in difficoltà per le spese della vita quotidiana, e poi quasi sei milioni di “vulnerabili” dichiaratamente in difficoltà.
Come si è giunti a questa situazione indegna di un Paese civile?
Negli ultimi dieci anni ci siamo lanciati in una folle corsa verso il baratro. Basti pensare al costante deterioramento dei livelli retributivi, per capire che cosa è accaduto. I salari italiani che nel 2000 erano quattro punti al disopra della media europea sono oggi otto punti al di  sotto. E poi c’è stata l’avarizia del ceto imprenditoriale, i profitti per pochi e i debiti scaricati su tutti in barba al libero mercato, il precariato e lo sgretolamento dei diritti dei lavoratori, l’azzeramento di ricerca e sviluppo. Non stupisce essere scesi così in basso. Stupisce soltanto che questa verità non sia divulgata.
Cose che hanno cambiato la geografia sociale della Penisola.
Proprio così. In passato l’Italia aveva un profilo “a botte”. C’erano degli estremi di ricchezza e povertà relativamente ristretti e un gran corpo centrale che era il ceto medio. Oggi si è in presenza di una struttura sociale “a clessidra asimmetrica” con un piccolo serbatoio in alto di cittadini che vivono nel privilegio, un segmento centrale a collo di bottiglia ed una vasta base su cui continua a depositarsi la sabbia che cade, cioè milioni di italiani in difficoltà che pagano per i privilegi di pochi.
Eppure il ministro Sacconi ha già bocciato il piano delle Acli. Che fine hanno fatto i paladini del Family Day?
Diciamo che paghiamo venti anni di racconti ottimistici, di fotoritocchi che hanno nascosto il vero volto di un Paese allo stremo, spinto subdolamente ad arrangiarsi.
Se dovesse compilare la voce di un dizionario, che cosa scriverebbe al lemma “Italia”?
È presto detto. “Italia, paese dal profilo piatto che occupa gli ultimi gradini della graduatoria europea, con una società grigia, bloccata in basso, con aree ampie di sofferenza, e settori estesi di declassamento e di disgregazione, destinati ad accrescersi”

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