mercoledì 31 agosto 2011

Divieto di riscatto degli anni universitari? Resta sempre la suggestiva ipotesi di vendere grattachecche a Ostia

Roma. Se c’è una morale da trarre alla fine di questo ventennio tremebondo, è che a furia di gridare allo scandalo, si rischia di restare afoni. Troppi occhi, indici e colli tortili, bisognerebbe possedere per riuscire a rendere conto dell’incredibile quantità di operazioni condotte contro il diritto da questo governo. Buon ultima giunge quindi la notizia che gli anni dell’università e del servizio militare non potranno più essere conteggiati per calcolare l’età pensionabile. Per molti giovani, laureati ergo disoccupati, gli unici anni sui cui speravano di fare affidamento (dietro lauto assegno) nella suprema aspirazione di strappare un giorno la fatidica social card. Ci sono state d’altra parte in questo Paese numerose profezie che si sono autodeterminate. Tutte cattive, naturalmente. Perché quelle buone («nessuna crisi, siamo al sicuro») si sono dimostrate clamorose menzogne. Diceva il ministro Tremonti che «la cultura non si mangia». Falsità spettacolosa. Ma Thomas ci insegna che se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, in Italia diventano reali nelle loro conseguenze. A patto che facciano pena. Con il risultato che, dopo l’ignobile falcidie del diritto allo studio operata dal ministro della ex Pubblica istruzione Tremonti (nessun refuso, se il ministro fosse stata la Gelmini Giulio gliel’avrebbe detto), non solo con la cultura non si mangia più. Ma ci si mangia anche quello che ne resta in via del tutto ipotetica: “vado all’università perché spero in un futuro migliore”. «Vista e considerata la trovata del governo», spiega a liberal il coordinatore dell’Udc Lazio, Mario Falconi, «al diciottenne neodiplomato non resta che un’alternativa: o prendere la fuga verso l’estero, o restare in Italia. Più precisamente in Versilia o sul litorale di Ostia, dove troverebbe molto più saggio, confortato dalla bella stagione, andare a vendere grattachecche per cinque mesi l’anno». Stabilito dunque che è severamente vietato riscattare ai fini pensionistici gli anni universitari, peraltro a peso d’oro, la dura lezione impartita a quegli sciamannati dei nostri bamboccioni, presenta risvolti tragicomici. Specie se questi possano avere l’ardire, ad esempio, di studiare medicina. «Molti medici giungono spesso a esercitare in pianta stabile la professione all’età di quarantacinque anni», chiosa Falconi, che dell’Ordine dei medici di Roma è presidente. «Non potere riscattare circa dieci anni di studio ai fini pensionistici, significherebbe creare un gerontocomio che penalizzerà i giovani due volte. Non solo gli universitari di oggi si avventureranno negli studi con la prospettiva di lavorare mezzo secolo per una pensione vicina all’elemosina. Ma in più si troveranno la strada sbarrata perché i vecchi saranno costretti a restare sul posto di lavoro». Non bastano neppure le convincenti tesi di Benedetto Croce per lasciarsi scivolare addosso le conseguenze. Sia pure che il medico non debba essere onesto ma competente.

Ma quale schietto ed autentico liberale, accetterebbe di farsi fare un’iniezione sottocutanea dall’emulo di Abacuc, costretto a restare sul pezzo dal ministro Tremonti oltre la soglia degli ottant’anni? Epigramma e farsa sono ormai un genere indistinguibile, in questo Paese. E bisogna chiedersi semmai, dietro la serrata degli anni universitari, non sia leggibile l’atto conclusivo di una lunga guerriglia contro il diritto allo studio, alla formazione, al lavoro, condotto da questo governo contro quello che ormai, nelle dichiarazioni, si legge sotterraneo come un chiaro approdo: lo switch-off del diritto allo studio. Che non è più un diritto, libero e in chiaro per tutti, ma un pacchetto criptato acquistabile in scomode rate. Alla portata di pochi. «È una mossa di una violenza gratuita che peraltro non copre nemmeno quei quattro o cinque miliardi che mancano all’appello per far tornare i conti», commenta il coordinatore centrista, che però dissente dalla teoria di un disegno antidemocratico portato a compimento. «Sarebbe troppo prodigo attribuire al governo pretese di natura filosofica. Qui si tratta dell’ennesimo coniglio tirato fuori dal cilindro da una maggioranza che non sa a che santo votarsi. È l’ennesimo colpo last minute, che dimostra l’approccio dilettantesco di questo governo ai mali del Paese. La politica dei veti incrociati genera mostri». Ma davvero, non c’è connessione tra un governo che a oggi si compone di ombre, di seconde file della Prima Repubblica, di scorie piduiste che vivono nella Seconda meglio che nella prima, e l’assoluta indifferenza verso il nuovo? La ricerca, la formazione, il lavoro? In una parola, i giovani? Se per avere un incarico di rilievo, l’unico titolo di studio riconosciuto dal governo è un master alla Playboy Mansion di Arcore, si può poi sospettare che tanto disamore per i giovani che preferiscono tenersi addosso i vestiti, sia consequenziale? «Si dimostra ancora una volta», risponde il presidente Falconi, «che la crisi è la cartina di tornasole di una politica che resta sempre medesima, uguale a sé stessa. Si autocondanna, si getta la cenere sul capo e promette di dimagrire, di cancellare vizi e sperperi. E invece, di tutti quei comuni da accorpare, di tutte quelle province da abolire, alla prova dei fatti non resta che l’eco beffarda dell’annuncio. Togliere a chi è più debole è più facile».
Come immaginare oggi la parabola di un giovane che voglia fortissimamente studiare? «È un salto nel vuoto. Anni e anni di studio, più di dieci se l’incauto ragazzo sceglie medicina. Chi glielo dice che non basterà nemmeno aprire il forziere di famiglia, per riuscire ad andare in pensione sotto i settant’anni?», si interroga Falconi. Qual è in questa nera valle, «la risultanza e il premio d’ogni sforzo e sacrifizio umano?». Se vi piace Monicelli, vi sarete già risposti per le rime. È tornato il tempo del Cavaliere amaro.(f.l.d)
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