L’arena si snoda in otto spigoli. Otto spirali di cemento armato bianco come la porcellana. Al loro interno si aprono delle nicche dove si agitano volti truci. Volti noti, notissimi, che però in Sicilia nessuno ha mai visto. Li chiamano mafiosi, in quel bunker attrezzato persino contro gli attacchi aerei, ma della loro esistenza si dubita ancora. Come degli Ufo, di Atlantide e dell’unicorno. C’è chi impreca, chi serra i pugni contro gli agenti di custodia, c’è che si finge pazzo e chi dà del pazzo ai suoi accusatori. Un uomo, uno dei 474 imputati, si affigge una graffetta sulle labbra. Arriva Tommaso Buscetta, l’infame che se l’è strappata di bocca. È il 10 febbraio del 1986. In quell’ottagono di ferro e di sangue, a prova di sparo, è già esplosa una bomba. «Se fosse entrata una mosca, si sarebbe sentito il ronzio delle sue ali», ricorderà più tardi Giuseppe Ayala. Perché quel giorno è esplosa una bomba. Ma ha tutto il rumore di un fragoroso silenzio. Sono trascorsi venticinque anni dal maxiprocesso di Palermo. E proprio laggiù, in quell’aula bunker dell’Ucciardone dove Giovanni Falcone e Paolo Borsellino provarono al mondo intero che esisteva Cosa Nostra, è tempo di ricordare. Di mutare, in musica e poesia, gli orribili acuti di una lunga tragedia. È questo forse, il senso profondo dello straordinario evento che va in scena oggi a Palermo alle 18, nell’aula bunker dell’Ucciardone: Falcone e Borsellino. Gli anni della solitudine, cronaca sinfonica che unisce i testi del giornalista e scrittore Giommaria Monti alla musica del maestro Stefano Fonzi, che per l’occasione dirige l’Orchestra sinfonica del Conservatorio Vincenzo Bellini di Palermo. E che si affida alla vibrante voce recitante di un attore del calibro di Remo Girone, e alla regia di Claudio Pirandello. Alla presenza, tra gli altri, di alcuni importanti protagonisti di allora come Piero Grasso e Giuseppe Ayala. Patrocinato dalla Fondazione Ignazio Buttitta – sostenuta dall’Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana –, dal Sacro Militare Ordine Costantiniano Delegazione Sicilia e dal Conservatorio di Palermo, l’evento risponde a un’esigenza che negli ultimi anni è divenuta sempre più pressante nella società civile, e in particolare in Sicilia. «Il nostro è un Paese che, oggi più che mai, ha bisogno di valorizzare quegli uomini che hanno saputo farsi autentici interpreti di eroismo civile. Per fortuna, all’interno di una società sempre più qualunquista e relativista, resiste una parte dell’opinione pubblica sensibile e responsabile in grado di sostenere iniziative di alto profilo etico e culturale che rappresentano segnali molto incoraggianti. Un sommovimento delle coscienze che nasce dal desiderio di riscoprire il senso profondo dell’essere uomini in società», spiega Ignazio Buttitta, presidente dell’omonima fondazione culturale. Sono molti, i momenti che sommuovono, in quest’opera di Monti e Fonzi nata da un’idea del maestro Vittorio Antonellini e commissionata dall’Istituzione Sinfonica Abruzzese che è stata prodotta da RaiTrade. Attimi che congiungono la cronaca nuda all’emozione della poesia, la lama tagliente del ricordo al soffice sussurro di voci che mai si vollero eroiche, ma solo normali. «È il racconto di come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per dieci anni inflissero colpi micidiali a Cosa Nostra malgrado l’isolamento e le umiliazioni a cui furono sottoposti: “l’infame linciaggio”, come lo definì la Suprema Corte di Cassazione», spiega Giommaria Monti. Ma si trarrebbe in inganno, chi immagina l’opera come un necrologio per voce ed orchestra. Perché in quelle vicende sanguinose, che fermarono il cuore di molti il 23 maggio e il 19 luglio del ’92, palpita anche, e soprattutto, la speranza. «È il racconto di come, nonostante tutto, Falcone e Borsellino riuscirono a portare avanti la loro lotta contro la mafia con risultati straordinari. Come disse proprio Paolo Borsellino poco dopo Capaci, era avvenuto qualcosa di nuovo. Quella prima orribile strage aveva fatto sorgere una speranza: la mafia non sarebbe più stata un valore per i giovani», annota Monti. Nei sedici quadri sinfonici che compongono la tela del maestro Fonzi, c’è insomma l’affresco di una storia crudele e toccante. Le pause in mezzo, le infinite legature con lo Stato, i tromboni della cattiva stampa, gli spartiti perduti e quelli sottratti da mani troppo leste. E soprattutto le loro voci fuori dal coro. Quelle di Paolo e Giovanni, gli avversati solisti che oggi, lasciati alla morte, insospettabili corifei commemorano come eroi. Il giorno delle prove, nell’aula bunker che ospiterà la cronaca sinfonica, l’emozione è palpabile. «Far risuonare quel racconto e la musica che lo accompagna, rivedere scorrere le immagini di Falcone e Borsellino nel luogo dove lo Stato ha portato a compimento il loro lavoro, è un fatto fuori dal comune», annota Monti. «L’Aula Bunker è, infatti, stata lo scenario nel quale sì è materializzata una strategia di lotta a Cosa Nostra come fenomeno criminale ma anche come fatto culturale. Il maxi-processo, celebrato in quel luogo e trasmesso in diretta tv, ha cambiato la storia della lotta alla mafia», prosegue l’autore. «È una opportunità che abbiamo voluto cogliere per rispondere a un’esigenza da tempo avvertita – aggiunge Ignazio Buttitta –. Un patrocinio che nasce dal bisogno di saldare un debito di verità contratto nei confronti di Falcone e Borsellino e di tutti coloro che si sono sacrificati per lottare quel potere mafioso stragista che ha contrassegnato un periodo particolarmente buio della nostra storia». Troppo spesso è accaduto che il peso ingombrante di meriti giudiziari immensi, abbia gettato scarsa luce sulla profetica voce di Paolo e Giovanni. Pur nella cupa odissea di sangue e ammazzamenti, si dimentica ad esempio che la rivoluzione sognata dai due giudici aveva anche, e innanzitutto, i colori della fiducia e della speranza. «La lotta alla mafia – ricordò Borsellino in una frase mai troppo citata –, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità». E poco ricordata, come spesso accade quando la retorica sovrabbondante si mangia la carne viva dell’uomo, è la lezione di saggezza di Giovanni Falcone. «L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza». Un abbraccio franco e caloroso alle nuove generazioni. Nessuno strepito, ma solo un appello alla coscienza. Caldo e paterno. Ma che infonde coraggio vero. «I siciliani devono fare i conti con il loro passato antico e recente – commenta Ignazio Buttitta –. Falcone e Borsellino rappresentano due figure esemplari, le cui storie vanno attentamente meditate e costantemente riscoperte per far crescere il nostro Paese libero e giusto nel rispetto dei valori e delle regole civili». C’è una grande storia da raccontare, in quest’opera sinfonica. Una parabola che parla di eroismi, ma anche di piccoli tradimenti, di incomprensioni verso qualcosa di troppo grande che trasse in inganno anche maestri venerabili. Non solo la cronaca giudiziaria, ma anche la cronaca familiare di due eroi che furono anche uomini, e sognarono serenità e avvenire per le loro famiglie. Paolo Borsellino l’aveva detto poco prima di andarsene in quel luglio maledetto: «Non ho paura di morire, mi dispiace soltanto l’idea di recare dolore alla mia famiglia». Molto è stato detto, ma dopo di loro, c’è ancora tanto da scrivere. L’affresco che prese forma dalle parole di Tommaso Buscetta, ha ancora molti spazi da riempire. Ma oggi forse, non molto è cambiato da quanto affermò Giovanni Falcone: «Il quadro realistico dell’impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata. Emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall’impressione suscitata da un dato crimine o dall’effetto che una particolare iniziativa governativa può esercitare sull’opinione pubblica». A Paolo Borsellino Palermo non piaceva. «Per questo ho imparato ad amarla», spiegò. È tempo che anche gli italiani, si amino di più.
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