Professore, c’è qualche spunto utile per la riforma del lavoro nel libro che avete appena scritto?
Sì, e la cosa ha creato molta soddisfazione perché ha fatto emergere delle linee di intervento condivise che hanno riavvicinato il governo e le parti sociali. Siamo molto fiduciosi nel prosieguo di una trattativa difficile che può essere condotta in porto con senso di responsabilità ed equilibrio.
Ecco, a proposito di equilibrio. Non le sembra un po’ controproducente la continua sottolineatura di una trattativa che si fa solo se piace al governo, e altrimenti tanti saluti agli intervenuti e si va avanti lo stesso?
La delicatezza della questione consiglia misure di prudenza. È piuttosto elementare comprendere che i toni ultimativi creeino molto fastidio a chi deve sedersi a un tavolo. Certe cose si dicono di solito quando si vuole mandare a monte tutto. E sicuramente le prove di forza sono dannose, sarebbe ora di mettervi fine. Tuttavia sono ottimista, credo si siano trovati buoni margini di convergenza da cui ripartire
Non ci tenga sulle spine.
Si è convenuto che la riforma del mercato del lavoro deve avere come obiettivo la flessibilità cattiva, e non la flessibilità tout court. Combattere i rapporti di lavoro autonomo che nascondono subordinazione significa contrastare gli abusi e va bene. Ma obbligare le aziende a stabilizzare i contratti a tempo determinato è invece dannoso. Non è vero che esiste un dualismo tra protetti e non protetti: il vero precariato è nelle partite Iva, perché i contratti di somministrazione hanno tutele equivalenti a quelle dei lavoratori a tempo determinato. Il numero di contratti flessibili vigenti in Italia è nella media dell’Unione europea. E non c’è buona ragione per convertirli d’imperio.
Ma che fine fa il contratto unico che nelle intenzioni del governo doveva “disboscare la selva di contratti precari”?
È il contratto di apprendistato che va valorizzato. I contratti a tempo determinato hanno ridotto moltissimo il lavoro nero e hanno creato centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ripeto: è la cattiva flessibilità che va combattuta.
Quindi il precariato va bene così.
Vanno eliminati gli abusi, e va fatta una manutenzione dei contratti in essere. Va messa qualche pezza, insomma. Se togliamo alle aziende la possibilità di ricorrere al tempo determinato, rischiamo di perdere ulteriori posti di lavoro perché scoraggeremmo le assunzioni.
Che cosa si intende per mettere qualche pezza?
Bisogna sburocratizzare le assunzioni a tempo determinato. I contratti a tempo determinato vanno liberalizzati. Le aziende non devono più indicare le precise causali che giustificano il rapporto di lavoro a tempo determinato. Devono poterlo fare e basta.
E che cosa succede alla scadenza del contratto?
Le aziende hanno facoltà di rinnovarlo, non rinnovarlo o trasformarlo in un rapporto stabile. Ma senza nessun tipo di obbligo.
E perché dovrebbero stabilizzare se il costo del lavoro diventerebbe superiore?
Il costo è identico. Semmai si può ragionare su qualche incentivo che spinga l’azienda a reputare l’inderminato vantaggioso.
E questo dovrebbe prevenire gli abusi?
I sindacati hanno già strumenti a disposizione per prevenirli. Ad esempio i tetti massimi e le soglie temporali.
Ma la riforma del mercato del lavoro non doveva servire a creare occupazione? Che cosa ce ne facciamo se tutto resta com’è?
Giusta osservazione. La riforma non creerà nessun posto di lavoro. Servirà soltanto a migliorare il lavoro esistente. Le assunzioni non dipendono da una legge, ma dalla necessità delle aziende e dall’andamento dell’economia.
Se tutto resta com’è, qual’ è la necessità di abolire l’articolo 18, visto che il precariato resta tale e quale e non gode di questo tipo di tutela?
I contratti a tempo determinato costano quanto gli indeterminati. Ma è importante consentire che l’azienda sia incentivata a trasformare il rapporto da precario a stabile. Se per la risoluzione di ogni causa di lavoro passano cinque o sei anni, le aziende sono costrette a versare indennizzi enormi. E questo rende la stabilizzazione un vero azzardo per il datore di lavoro. Vanno abbattuti i costi di licenziamento.
Allora perché non creare un tribunale del lavoro espresso, invece che toccare l’articolo 18?
Non basta istituire un arbitrato. Occorre che la giustizia sia fatta funzionare e non è facile stabilirlo per decreto.
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