sabato 26 febbraio 2011

La seconda vita di Vincenzo Montella, lo scugnizzo che ora è felice di stare in panchina

Suo padre si spellava le mani alla catena di montaggio dell’AlfaSud di Pomigliano. Lui ha scelto la fabbrica della pedata, e la mani, semmai, le ha fatte consumare agli altri. In famiglia le macchine si costruivano e basta. Lui ne ha comprate diverse. Jaguar soprattutto, anche se il mezzo che più gli ha fatto gonfiare il petto, insieme alla rete, è stato l’aeroplanino. Campano verace, Vincenzo Montella. Un autentico guappo, parafrasano quelli che l’hanno visto spaccare il naso di un paparazzo nell’aria fresca della Capitale. Lui, uno scugnizzo, che diventa un beniamino di Roma capoccia nel feudo del Capitano. Due amori e altrettanti figli, un inizio da portiere e un destino da attaccante, la passione per la doppia cifra condita dal record di doppiette consecutive: quattro, nella stagione 96-97. La doppiezza dev’essere iscritta nel corredo genetico di Vincenzo Montella. Che ha scanso di obiezioni razionalistiche, è pure di giugno, Gemelli, e ha persino due radici nello stesso dente. «Una cosa rara», dice Rita, la sua prima moglie.

Non è l’unica, nel curriculum dell’Aeroplanino, passato in pochi giorni dalla guida degli imberbi giovanotti giallorossi, alla guida della prima squadra. Apparentemente senza aver cambiato di un virgola il suo metodo educativo. Ne sa qualcosa Pizarro, veterano del centrocampo romanista da mesi ai margini per dispetto a quel cattivone di Claudio Ranieri. «Se il dolore non è insostenibile, gioca», gli ha detto Vincenzino. E lui, novello Lazzaro è guarito di botto da uno strano infortunio. Il cileno è stato tra i migliori in campo nel fortunato debutto di Bologna. Uno a zero, e palla a centro per Montella. Che di mettere il pilota automatico fino all’arrivo dei paperoni americani non vuole saperne. «Non mi sento un traghettatore. Al tempo stesso non mi danno fastidio le voci, gli allenatori che si propongono. Per dirla tutta non mi dà fastidio che si parli di Ancelotti, una persona che stimo molto. Il mio obiettivo è solo quello di far bene da qui alla fine dell’anno», ha precisato. Perché se a Vincenzino riuscisse il miracolo di salvare l’annata di Totti e soci, persino San Gennaro sentirebbe scricchiolare i suoi indici di consenso. Anche perché, al mister Montella, non mancano i piedi meno della testa.

E a chi si è mostrato scettico verso la sua inesperienza a grandi livelli, ha risposto con un lazzo niente male: «In serie A ho fatto più panchine io che tanti altri altri allenatori. Un po’ di esperienza ce l’ho». Già, la panca. Ne ha fatta così tanto ai tempi di Capello, che dovrebbero allestirgliene una nello slide-show che ne celebra la carriera. Insieme al cucchiaio a Buffon in un lontano Roma-Parma, ai quattro gol alla Lazio di un indimenticabile derby, e prim’ancora alla faccia dei compagni di strada, quando scoprirono in quel portiere che scalpitava tra i pali, un incredibile attaccante fabbricato a Pomigliano. «Un paese piccolo, povero e particolare», racconta Vincenzo, che però è rimasto importante anche dopo aver bevuto a dismisura dal calice del successo. «Quando raggiungi certi livelli è difficile non perdere la testa», spiega il mister, che nel paese natio ha trovato la chiave di volta per non spingere troppo in alto il suo aeroplanino. «Quando vivevo momenti di esaltazione bastava tornare a casa per ritrovare equilibrio». Vincenzo lasciò il suo paese piccolo e povero a tredici anni. C’è l’Empoli ad attenderlo, il miglior settore giovanile d’Italia. Papà non lo ostacola, ma non può nemmeno incitarlo. «Quando ero più piccolo non aveva tempo per venirmi a vedere, lavorava tutto il giorno», racconta. Vincenzo è tra i pochi calciatori che quasi mai ha potuto annoverare i genitori tra gli spalti. «Non hanno mai visto una mia partita – racconta l’Aeroplanino – Una volta sola provai a portare mio padre allo stadio, quando ero già Montella. Scelsi una partita amichevole prevedendo che ci fosse poca gente. Invece lo stadio era pieno e mio padre rimase impressionato dagli spalti gremiti e dalla ressa». Assenti allo stadio, presenti nel cuore, papà e mamma Montella. «La famiglia mi ha dato una base determinante per la mia formazione, il mio equilibrio». Esordisce con l’Empoli nel 90-91, in C1, ma lo scoppio è ritardato da un brutto infortunio. Salta un perone, e se non bastasse si becca anche una brutta infezione virale. È nel 93, che Vincenzino trova i giusti anticorpi: i gol. Diciassette, di splendida fattura, e particolarmente apprezzati a Genova, sponda Grifone. Il salto in B non rallenta il decollo. Il pallottoliere segna ventuno marcature cui Vincenzino appone per la prima volta il marchio di fabbrica: braccia aperte tra le nuvole, andatura caracollante e sguardo verso il cielo: è nato l’Aeroplanino. L’anno successivo continua a solcare il cielo ligure, ma stavolta Montella si arruola nella contraerea. Conquista la A con la Samp, ma lui non accenna turbolenze. L’Aereoplanino vola anche nella massima serie con ventidue gol e il titolo di vicecapocannoniere. La musica non cambia nel 97-98, venti reti e si accende la ressa delle grandi che vogliono mettere Vincenzino nel loro hangar.

Alla fine della fiera, se lo aggiudica la Roma nel 1999, dopo aver esordito in Nazionale contro il Galles. È Zeman ad averlo voluto sotto il Cupolone. E invece, quando Montella sbarca, il boemo ha già lasciato al generale Capello. Ci sono le prestazioni, ottime, ci sono i gol, diciotto, ma al capocannoniere del torneo mancano i minuti. Piuttosto che fargli fare novanta minuti filati, il sor Fabio preferirebbe un tuffo nella fontana di Trevi. E come se non bastasse, a giugno appare a Trigoria un certo Gabriel Omar Batistuta.

Le decisioni  del mister sono chiare: Montella gioca però viene escluso dalla formazione tipo. Che al posto dell’Aeroplanino, prevede il lavoro sporco di Del Vecchio. Eppure segna tredici gol. Di cui alcuni davvero importanti, perché quell’anno il cielo di Roma si tinge di scudetto. Nella stagione del terzo scudetto l’argentino si infortuna. Montella gioca e timbra puntuale il cartellino. Nella terzultima gara Capello lo esclude ancora, ma Vincenzo subentra e segna con un pallonetto da antologia scoccato dai venticinque metri. Rete decisiva. Contro il Napoli sbotta. Sono in molti a ricordare il “vivace alterco” con il mister friulano. Non gli porta rancore, oggi, mister Montella. «A livello di gestione ha dimostrato di avere qualcosa in più degli altri. Tutte le mie esperienze sono state positive, oggi, a ripensarci a mente fredda, anche quella con Capello lo è stata. In quel periodo a me sembrava che mi venisse tolto qualcosa. Però Capello sulla gestione aveva qualità superiori».
Resta giallorosso fino al 2007, poi la parentesi londinese al Fulham, e ancora l’Italia. Breve operazione nostalgia alla Sampdoria (2007-2008) e poi ancora Roma nella stagione 2008-2009. Ma di questi ultimi scampoli di carriera, nonstante la classe rimasta intatta, la cosa più memorabile è invero il suo addio. «Quando si smette di incazzarsi quando si resta fuori, è il momento di lasciare. E io voglio lasciare adesso. Perché bisogna smettere di giocare quando ancora dispiace a qualcuno». Il 2 luglio 2009 l’Aeroploanino plana lontano dai campi di calcio. Montella lascia con 235 reti in partite ufficiali, uno scudetto, due Supercoppe, una Coppa Italia, e un Europeo rubato d’un soffio ai nostri azzurri. Non è un vero addio, ma un «mezzo addio», spiega lui, perché la società giallorossa ha deciso di convertire il suo contratto triennale in un contratto da allenatore delle giovanili. «Un ruolo che mi inorgoglisce», dice.

E d’altra parte, molti dei suoi tacchetti si sono appiccicati con la colla ai sampietrini di Roma. Il matrimonio con Rita, poi naufragato, e l’amore per il figlio, innanzitutto. Sì, anche lui, un futuro calciatore in erba. «Quando capiterà ci penseremo. Oggi mio figlio ha nove anni e gioca nella Polisportiva Palocco. È un attaccante mancino come me ed è bravo – spiega il mister della Roma – Farò in modo di non fargli montare la testa se andrà avanti con il calcio. A me adesso interessa soprattutto che sia bravo a scuola. Ma confesso che se non avesse avuto una certa predisposizione per il calcio mi sarebbe dispiaciuto». Quanto sia importante essere bravi a scuola, papà Vincenzo gliel’ha dimostrato da grande, con caparbietà e nonostante il successo e il futuro in cassaforte. Nell’afa di luglio, Montella Vincenzo si reca all’Istituto Paritario Giacomo Leopardi dove raggiunge il trofeo di cui forse è più orgoglioso: diploma di “Perito commerciale ed aziendale, corso Igea”. Con l’ottima valutazione di 85/100, e la buonissima parlantina, il ragionier Montella viene applaudito anche dagli scolari laziali. Ironia della sorte, ha portato all’esame il bilancio d’esercizio della Roma.  E nella Capitale, dopo Rita, ha pure colto un altro amore, Rachele Di Fiore. Fa la hostess della Casa del Grande Fratello, sale a bordo dell’Aeroplanino, e ne viene fuori una figlia. Come poi sia finita non è dato sapere. Montella ruppe il naso a un reporter che lo infilò nei fatti suoi. E la cosa consiglia prudenza, e saggia coltre di mistero. È pur vero che Vincenzo ha fatto tesoro di ogni cosa. Da pochi giorni in sella alla Roma, sembra essere diventato il sosia partenopeo del rude friulano che lo legò alla panca. «Un giocatore di alto livello – ha detto in conferenza stampa – deve essere decisivo anche in mezzora, è la qualità del gioco che conta, non la quantità». E stessa serafica letizia ha mostrato verso i malumori lasciati nello spogliatoio da Claudio Ranieri. «È giusto che un calciatore si incazzi, lo facevo sempre anch’io e quando ho smesso di farlo ho anche smesso di giocare. La sua rabbia però deve trasformarsi in spirito di rivalsa, senza venire meno ai suoi doveri di professionista, in campo e negli allenamenti, il rispetto per i ruoli e i compagni non deve mai venire meno». Borriello avvisato, mezzo salvato, insomma. Quanto ai metodi e la risposta alle enormi pressioni della piazza, le idee sono altrettanto chiare. «Ho la fortuna di avere una rosa ampia, di alto livello, almeno sedici giocatori da Roma, quindi ho l’imbarazzo della scelta. Ma pesare il minutaggio e accontentare tutti sarà impossibile. Ascolterò tutti ma ho il mio ruolo, e devo decidere». Chissà come la prenderà il Pupone, a vedere l’ex compagno di squadra fargli mulinare le gambe al ritmo del suo fischietto. Negli anni, insieme, si mormorò a lungo di rapporti tesi. «Una cordiale, ma poco appariscente antipatia», la definirono. Questioni di stili di vita diversi, di rispettive donne che si prendevano poco, di reciproche gelosie. L’altro giorno, a Bologna, Francesco sedeva in panca. Eppure, quando allo stadio è partito il coro, anche il Capitano si è messo a cantare a bocca larga in direzione di Vincenzino. Con l’aria che tirava con Ranieri, Francesco deve aver visto nell’antico rivale un’autentica liberazione.

Ad ogni modo, l’Aeroplanino è tornato a volare sui cieli di Roma. Una sola partita, una sola vittoria. E ancora poco per sbilanciarsi, ma tantissimo per sperare. A Roma sono fatti così. Non è poco per uno che non cantava l’Inno di Mameli perché «si vergogna di fare qualsiasi cosa che possa distinguerlo dagli altri». Magari non sarà in prima fila per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. Ma stavolta, se resterà in panchina, Montella si sarà distinto eccome. (f.l.d)

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