Lo scandalo Lusi è la
goccia che forse farà traboccare il vaso, prima che l’acqua travolga il
vaso stesso. Casini e Bersani si sono detti determinati a promuovere
nuove regole in materia di finanziamento ai partiti, perché consapevoli
che in un clima tanto quaresimale, i partiti hanno l’obbligo di
diventare per i cittadini delle “case di vetro”. In materia di
finanziamento, ha detto Bersani, «non può esistere che un partito prenda
finanziamenti senza certificazioni e non ci siano trasparenza e dei
criteri di partecipazione». E c’è poi l’ipotesi di una legge sulla
responsabilità giuridica dei partiti, che è attesa almeno dal 1948 e
porta la firma di don Sturzo. Una proposta che avrebbe il vantaggio di
obbligare i partiti a rispondere della gestione finanziaria e del
rispetto delle regole di democrazia interna, che è stata rilanciata con
forza dal Fatto Quotidiano. «Spesso si pone l’accento sui privilegi
della casta», spiega a liberal il presidente emerito della Corte
costituzionale, Piero Alberto Capotosti, «sul numero eccessivo di
parlamentari, sulle spese per i ristoranti delle Camere, i vitalizi, le
indennità e i portaborse. Ma si tratta di elementi che pure assommati,
non sono rilevanti quanto la questione dei rimborsi, che invece
rappresentano uno dei nodi più importanti dei costi della politica»
«L’attuale natura giuridica dei partiti politici», ragiona Capotosti,
«differisce da quella prevista originariamente dai padri costituenti. A
suscitare questo cambiamento è stato il finanziamento pubblico, che è
stato un elemento distorcente in grado di alterare lo status dei partiti
come associazioni di diritto privato. Essendo destinatari di fondi
pubblici, i partiti dovrebbero quindi essere dotati di strumenti in grado
di consentire il controllo di bilancio. E sono chiamati a rispondere
del denaro erogato dallo Stato per lo svolgimento dei loro compiti
essenziali». «Con il referendum che abrogò nel ’93 il finanziamento»,
prosegue il presidente della Consulta, «i partiti misero a punto il
meccanismo del rimborso. Ma lo stesso, a dispetto di alcune storture,
dovrebbe essere finalizzato a nient’altro che la copertura delle spese».
Ma quali sono i principali abusi perpetrati con i soldi dei cittadini?
«I fondi statali», risponde il giurista, «dovrebbero essere destinati in
primo luogo ai partiti (anche quelli di nuova formazione) allo scopo di
metterli in condizione di presentarsi alla competizione elettorale. In
secondo luogo, i fondi dovrebbero essere proporzionati alla effettiva
rappresentatività conseguita al risultato delle urne. E infine,
dovrebbero essere proporzionati alla durata della legislatura, e non
erogati a prescindere dalla durata della stessa come avviene oggi,
producendo in alcuni casi un effetto di raddoppio». Come uscirne,
dunque? «In base a una previsione di Iegge, i partiti in quanto soggetti
sovvenzionati in modo continuo, dovrebbero rimettere i loro bilanci al
controllo di un organo ad hoc come la Corte dei Conti», commenta
Capotosti. «Ciò limiterebbe di certo il grado di autonomia attribuito
dai padri costituenti ai partiti. Ma di fatto, l’obbligo di sottoporre a
revisione i bilanci, rispecchierebbe il mutamento della loro natura
giuridica generato dal finanziamento». E che cosa accadrebbe, invece,
nella fantascientifica ipotesi di abolirlo? «Bisogna fare attenzione»,
mette in guardia Piero Alberto Capotosti. «Il finanziamento pubblico non
è qualcosa di stravagante: in tempi di mediatizzazione pervasiva,
l’acquisto di spazi di propaganda sui media ha reso le campagne
elettorali sempre più dispendiose. E il finanziamento deve essere
cospicuo, nell’intento di prevenire finanziamenti illeciti da parte di
privati come accadde al tempo di Tangentopoli. D’altra parte,
l’alternativa al finanziamento pubblico è quella dell’elargizione
privata, così come accade negli Stati Uniti. Si tratta di un sistema che
rende pubblici gli interessi privati delle lobby, e che però lascia
facilmente presumere che vincoli le decisioni delle forze politiche a
precisi interessi». Dare quindi natura di persona giuridica ai partiti, e
porre fine alla deregulation dei rimborsi. Sulla materia, il presidente
emerito ha una ricetta precisa: «Occorre ridiscutere il meccanismo e
depurarlo dalle attuali storture legate alla durata della legislatura,
alla proporzionalità degli stessi in base ai risultati elettoralli, e
alla prassi della tesaurizzazione dei fondi incompatibile con la logica
del recupero delle spese ». Ma avverte: «Bisogna prendersi del tempo,
affinché si possa produrre una regolamentazione della materia efficace
per una questione tanto delicata. L’eco delle ultime vicende, non deve
indurre troppa fretta perché sul merito, come abbiamo visto, pendono
numerose riserve e controindicazioni». E sul tema, sembra concordare
anche Paolo Pombeni, professore di Storia contemporanea all’università
di Bologna. «Ci si accorge sempre dei buoi quando ormai sono fuggiti
dalla stalla », spiega a liberal. «La prima cosa da pretendere», osserva
il politologo, «è la presentazione di documenti circostanziati che
attestino le spese in modo chiaro. Tutto deve essere rendicontato e
certificato da appositi organi di revisione dei conti. Pratiche come
quelle degli investimenti in Tanzania non devono più ripetersi. Lo scopo
del rimborso deve rimanere esclusivamente quello di pareggiare le
spese, e non quello di lucrare con i soldi dei cittadini. Una slavina
che ci riporti all’era di Tangentopoli è l’ultima cosa di cui abbiamo
bisogno in un periodo di così grave emergenza. I partiti devono
provvedere a regolamentare la materia senza esitazioni. Se così non
fosse, l’indignazione popolare li travolgerebbe per la seconda volta».
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