Ci avevano spiegato che era l’incarnazione della concezione romantica, lo sposalizio definitivo tra arte ed esistenza, lo snodo magico dove l’immagine pittorica si faceva oggettivazione della coscienza dell’artista. Salvo apprendere oggi che il celeberrimo Autoritratto di Vincent Van Gogh, dipinto nel 1887, è l’oggettivazione della coscienza di un altro. Più precisamente di suo fratello Theo, secondo il museo di Amsterdam intitolato al genio ribelle di Zundert, che in uno studio assai ponderoso, sostiene in breve che il taglio nitido della barba, il colore degli occhi e la forma arrotondata della curva delle orecchie sono tratti somatici che nemmeno in un accesso di espressionismo, possono attribuirsi obiettivamente a Vincent. Nel tentativo di collocare nel tempo il presunto ritratto di Theo, dunque, bisogna supporre che Vincent lo raffigurò a Parigi, dove si era trasferito dal 1886 per seguire i corsi di pittura di Fernand Cormon, bravo insegnante ma modesto pittore, allo scopo di migliorare la sua tecnica e e di esercitarsi sui modelli. E nella Villa Lumiere, risiedeva già da alcuni anni proprio Theo, che era a capo di una galleria d’arte a Montmartre. Vincent andò a vivere a casa sua per almeno un anno, e di certo vi stabilì anche il suo studio nel quale dipinse tra l’altro le famose vedute parigine. È nel corso di questa convivenza quindi, che Vincent avrebbe potuto realizzare il ritratto di Theo. Sappiamo bene infatti come i due fratelli fossero uniti da mutuii sentimenti di odio e di amore. E quale fosse l’origine di tanta mescolanza alchemica: alternavano entrambi forti slanci a collere ciclopiche. E avevano gli stessi disturbi nervosi. Ad ogni modo, la guerra dei Gogh terminò con la decisione di Vincent di trasferirsi in Provenza nel 1888, l’anno successivo all’Autoritratto.Regalo d’addio al fratello? Gentile omaggio seguito a un armistizio? Esercizio diventato via via un capolavoro riconosciuto della pittura del tardo diciannovesimo secolo? Chi può dirlo. Il quadro accusatorio allestito dal Museo di Amsterdam è certo compatibile con la biografia di Vincent. L’indiziato non ha neppure un tenue alibi: viveva con Theo, ergo un giorno gli avrà potuto chiedere di posare. Ma il problema sta invece nelle prove addotte: taglio nitido della barba, il colore degli occhi e la forma arrotondata della curva delle orecchie. Tutte prove indiziarie. Non saremo così pigri da chiudere il caso, quindi. Nè tanto maldestri da non accogliere nella squisita disquisizione accademica, alcuni elementi di humour. Perché dopo Parigi, dopo l’Autoritratto incriminato, c’è sì la Provenza «dove c’è più colore, più sole», ma c’è anche e soprattutto un altro ritratto, un altro rapporto affettivo, e un’altra lite furibonda con Paul Gauguin. Quella famosa, tramandata da ogni manuale, che indusse Vincent a scagliare in testa un bicchiere contro l’amico, e più tardi a consegnare metà del suo orecchio, fresco di rasatura, alla prostituta Rachele. Quale fu l’oggetto del contendere? Ma un ritratto, naturalmente: il Ritratto di Van Gogh che Paul Gauguin eseguì nel dicembre del 1888. Non appena Vincent lo vide ebbe una reazione di sdegno: «Sono certamente io, ma io divenuto pazzo». Il dipinto ce lo ricordiamo tutti, e se così non fosse faremo finta. Raffigura Van Gogh nell’atto di dipingere girasoli, per chi ha fatto finta. Ma ciò che importa è osservare i dettagli del volto: il taglio della barba? Sì, è abbastanza nitido. Il colore degli occhi? Sono socchiusi, ma non ci sembrano nero carbone. La curva delle orecchie? Tende a essere arrotondata, non molto più rotonda di quella dell’Autoritratto. Viene dunque da chiedersi: ma non è che anche Paul Gauguin abbia preferito ritrarre Theo invece di Vincent? E se Vincent non si fosse riconosciuto perché in quel se stesso, ma se stesso «divenuto pazzo», avesse visto invece suo fratello Theo? E se Vincent vede nel ritratto di Gauguin la versione folle di sé, bisogna ritenere folle che quell’uomo dal taglio della barba nitido e la curva delle orecchie arrotondata sia proprio Vincent e non suo fratello? E soprattutto, il nostro meraviglioso olandese, è folle in quanto non si riconosce nel quadro di Gauguin, in quanto nell’autoritrarsi dipinge suo fratello, o perché dipinge suo fratello e ne fa il proprio inconsapevole autoritratto? L’ipotesi lanciata da Amsterdam, fatta la tara ai nostri facili strepiti giornalistici, è uno stimolo di lavoro, che esercita in pari misura filologi dotti e romanzieri fantasiosi. Ma provare a entrare nel cerchio magico di Vincent & Theo, significa profondarsi in un labirinto che lasceremo percorrere ai freudiani di mestiere. Qui ci basti dire che già grandi maestri come Robert Altman, buonanima, scavarono nell’oscura simbiosi dei rampolli Van Gogh. E dall’omonimo film del 1990 abbiamo ricavato una sola certezza: la sensazione di assistere a un mistero insolubile. Non è peregrino poi, per rendere le cose ancora meno semplici, ricordare ciò che Van Gogh scrisse a Wilhemina: «Vorrei fare dei ritratti che tra un secolo, alla gente di quel tempo, sembrassero delle apparizioni. Non cerco di raggiungere questo risultato attraverso la somiglianza fotografica». E quanto suonano beffarde dunque, le ultime parole che Vincent appunta in un biglietto per Theo prima di darsi la morte. Ce le ha ricordate il grande Zavattini: «Eh bien! Vraiment, nous ne pouvons faire parler que nos tableaux». Un perfetto ritratto del “forse-Autoritratto". (f.l.d)
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