martedì 21 giugno 2011

Ciao Big Man, lo spirito soul che ha soffiato su Springsteen

A un certo punto, sembrava non dovesse morire più. Ti aspettavi che quel colosso d’ebano semovente, quasi due metri d’altezza, polmoni grandi come mantici, si sollevasse d’un balzo dal letto e si scrollasse via di dosso quell’ictus scuotendolo via con le sue treccioline. Come un elefante con un moscerino. Ci avevano creduto tutti, a vederlo sdraiato nel suo letto da qualche parte della Florida. Clarence era paralizzato. E poi di punto in bianco aveva ripreso a muovere gli occhi, a stringere la mano, a muovere le dita per dire che c’era. Clarence l’aveva promesso: «Finché la mia bocca, le mie mani e il mio cervello funzioneranno, continuerò a suonare». Sfidare la paralisi. Era il suo modo per restare in allenamento. Per dire a Bruce e alla band che non si azzardassero a cancellare uno straccio di data. Lui era Big Man, e gente della sua stazza ti fa sempre pensare a un’eccezione alla regola: «È un combattente, lui ce la farà». Clarence Clemons ne aveva vinte tante. Il suo soprannome s’è l’era conquistato sul campo, mica con un doppio giro della bilancia. Diverse le operazioni alle ginocchia, molti gli interventi alla schiena, anche un infarto. E lui niente. Sempre in piedi sul palco, gli occhiali scuri, il sax a tracolla pronto a esplodere sotto il sibilo prepotente del suo fiato. Portava anche un paltò nero. Ed era lì che aveva nascosto tutti i suoi mali. Li aveva messi dentro un armadio nero. Solo il suo sassofono doveva brillare, il resto doveva fare da sfondo.
Gigante buono, si è detto. Ma anche la bontà non dà garanzie, quando si tratta di contraddire un gigante. Forse fu questo che accadde quella notte di settembre del ’71. Una «notte buia e tempestosa», come la definiva lui. Si presentò allo Student Prince dove il Boss stava provando. «Aprii la porta, e Bruce si interruppe con un leggero moto di fastidio», racconta. Ma poi dall’ombra emerse la mole di un uomo immane, dietro a una coreografia naturale di lampi e tempesta. «Voglio suonare con voi», intimò a Springsteen senza battere ciglio. E Bruce: «Certo, puoi fare tutto quello che ti pare». Stagliato sulla porta, sembrava di vedere John Coffey. E di essere finiti d’un tratto sul proprio miglio verde. C’era il rischio che ti facesse vomitare le farfalle dello stomaco. Big Man salì sul palco in quella notte spettrale. Sfoderò il suo strumento e iniziò a suonare con Bruce senza dire un parola. Eseguirono insieme Spirit In The Night, Stephen King avrebbe apprezzato. Big Man e il suo Boss avrebbero raccontato questa storia per anni, in giro per gli stadi del mondo. La storia dell’amicizia di Bruce e della E-street band, tutte le volte che attaccavano Tenth Avenue Freeze-Out. A un certo punto della canzone, arrivava l’incontro con Big Man. E lui prendeva a raccontarlo con un assolo di sax che mandava in visibilio un po’ tutti. Clarence era lo “special one” del gruppo. Il copione voleva che a ogni tappa, non appena si avvicinava il finale, Springsteen cominciasse a fare lo spelling del suo nome con l’entusiasmo di una cheerleader. «Datemi una C, datemi una L, datemi una A… che nome viene fuori? E tutto lo stadio giù a scandire il suo nome: Clarence Big Man, «l’uomo più grande che io abbia mai visto», diceva il Boss coram populo.
Era il rock dell’uomo piccolo, bianco e paroliere, che chiamava sul palco il rhythm’n’blues dell’uomo nero e grosso. Che parlava soltanto la lingua di fuoco che nasce tra lamina e oncia. I rivoli del soul e del beat che abbattevano i paletti dell’apartheid. Come solo la musica ha fatto, in modo travolgente, con un secolo d’anticipo sulla politica. Tra il 1970 e il 1980, Clemons non saltò neppure un disco di Springsteen. E il Boss lo volle accanto nella copertina di Born to Run: faccia a faccia con il leader della band. Big Man gli regalò gli assoli arroventati di Thunder Road e Jungleland, soffiò su Badlands crome e semicrome di tenore d’alta scuola. E ancora in The Ties That Bind, Sherry Darling, I Wanna Marry You, Independence Day. e poi nell’85, Bobby Jean e I’m Goin’ Down. Figlio di un pescatore della Virginia, aveva abboccato alle lenza ancora bambino. Un sax sotto l’albero, regalo di suo padre. Lo scartò, e cominciò a soffiare. Aveva nove anni, ma non avrebbe più smesso. Passò dall’alto al baritono, e dal baritono al tenore. Certo, avrebbe potuto giocare a football, con quelle spalle da discobolo del Kilimangiaro. Era molto promettente. Ma un incidente decise per lui e tanti saluti alla Nfl. Non ancora ventenne si esibì accanto a Daniel Petraitis, che a Nashville era più o meno il sinonimo di leggenda. Prestò fondà una sua band che faceva le cover di James Brown, i Vibratones. Ma tanto fiato veniva anche da un cuore possente. Alternava la musica al mestiere di educatore al Jamesburg Training School for Boysn, nel New Jersey. Ci restò otto anni, dal 1962 al 1970. Insegnare a ragazzi che non credevano in nessuno, gli insegnò a credere in se stesso. E così ha potuto credere che un giorno, sulla porta dello Student avrebbe guardato Bruce in faccia in una notte di tempesta. E gli avrebbe chiesto di suonare, così, semplicemente. Senza neppure chiedere per favore.
Non si identificano con lui vita morte e miracoli del bebop. Né record di assoli di oltre un’ora in stile Goodnight. Ma da Charlie e Sonny, dall’atelier dell’artista all’arena oceanica del rock, Big Man si è portato a tracolla la nota legata fuori dal pentagramma: vivere a pieni polmoni, senza prendere fiato.(f.l.d)
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