mercoledì 10 novembre 2010

Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia: a Roby Baggio, un grande uomo che sembra un ragazzino

È del ’67 Roberto Baggio, ma c’è da supporre che anche per la sua leva calcistica valessero le regole di Nino, quello con le scarpette di gomma dura. Anche lì a Caldogno, dove è nato, dev’esserci stato un ragazzino che sembrava un uomo. Tutti dovettero capirlo abbastanza presto che in quell’ossuto bambino era in sonno il giocatore fenomenale che sarebbe stato. Ma nessuno poteva sapere che quel bambino che sembrava un uomo, sarebbe diventato un giorno ciò che Roby è oggi: un grande uomo che sembra un ragazzino. Lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia, il vero campione. E lui che non ha avuto paura di tirare il calcio di rigore più infausto della nostra storia, uscito dal campo è rimasto ciò che era quando aveva la palla al piede. Un leader silenzioso al servizio degli altri, ma anche un uomo che ha imparato a mostrare le sue debolezze facendone la propria forza.
Ha vinto numerosi trofei il numero dieci che segnò nel’90 uno dei gol più belli della storia del calcio, ma quello che gli è stato assegnato ieri deve avere per lui un sapore speciale. L’ex calciatore azzurro si è aggiudicato il ”Peace Summit Award 2010”, il premio che annualmente viene assegnato da tutti i Nobel per la pace alla personalità che più si è impegnata verso i più bisognosi. Una specie di Pallone d’oro della solidarietà, insomma. Ancora una volta, come nel ’93, un premio alle prodezze individuali al servizio della squadra. Allora per gioco, e magari per amore della maglia. Oggi per gli assist agli ospedali, agli enti di beneficenza, ai bambini di Haiti, al Nobel birmano San Suu Kyi. Si è speso per anni per decine di gare, Roberto Baggio, titolare inamovibile della squadra sempre più sparuta della solidarietà disinteressata. Domenica, a Hiroshima, il numero dieci ritirerà il premio che è già entrato nel palmarès di Peter Gabriel e Bono Vox, Gorge Clooney e Roberto Benigni. Salirà sul palco caracollando, come un tempo, sulle sue gambe infaticabili di quarantatreenne. Forse dribblerà gli sguardi e qualche invidia, come ai bei vecchi tempi, serpeggierà negli spogliatoi del mondo globale. È dura evitare la metafora calcistica, quando si parla di Roby. Se c’è qualcuno che ha trasformato in un continuum ragioni del campo e ragioni della vita, quello è lui. Baggio ha saputo infilare micidiali contropiede nella metacampo avversaria come nell’area affollata dei detrattori. Tecnici burbanzosi, ct impreparati alla sua classe, presidenti che lo hanno dato per finito quattro o cinque volte, critici tromboni: li ha spiazzati tutti a colpi di tunnel e serpentine cecoslovacche, Roby. Ha puntato la porta con la sua classe disumana, e infine ha fatto goal. Sempre al servizio della squadra, ma indocile all’arroganza, il Divin Codino è stato il più amato dei nostri numeri dieci. «I rigori li sbaglia soltanto chi ha il coraggio di tirarli», disse un giorno, quando in troppi gli imputarono la sconfitta di Pasadena. Frase importante, in un calcio che è specchio dei suoi tempi: un mondo pieno di majorettes e veline scontrose, strapagate e insensibili, che rilasciano dichiarazioni aa gettone, che vanno regolarmente «nella squadra che hanno sempre sognato da piccoli». Roby no. Appena acquistato dalla Juve, si scrollò di dosso davanti a tutti la sciarpa bianconera che lo aveva avvoltolato in un altro destino lontano da Firenze.  Si è sempre fatto carico degli errori, Baggio, ma è sempre stato orgoglioso nel rivendicarli, come un uomo coraggioso deve fare quando la sorte mette lo zampino nel lavoro di una vita, nelle corse e nei ritiri, nei lampi di classe che ti portano in finale. È di un’altra pasta, Roby, che ancora rimpiange il suo quarto mondiale. Quello che non ci fu mai.  «Era giusto, era sacrosanto. Per la carriera che avevo avuto ne avevo diritto. Mi dovevano portare, darmi quell’occasione... Anche se fossi stato in carrozzella mi dovevano portare», ha detto. Passione ininterrotta per il calcio, ma non esclusiva.
Anche oggi che è ripresa la sua storia con la nazionale, Roby ci riprova a bordo campo, dopo tre mondiali, zero sconfitte e nessuna Coppa del mondo. È questo il paradosso di un campione senza trono, che però dall’amaro fiele della sconfitta, ha cavato la terapia del dono. «Ho accettato per amore, non prendo un euro, se mi accorgessi che non ho niente da fare, come sono venuto me ne andrei. Nessun problema, sono già scomparso una volta. E non ho provato dolore». Pensi ai bambini di Haiti che scalciano una palla di stracci e quasi sei contento che abbia smesso. Roby, leva calcistica del ’67, si è portato via dal campo, insieme alle scarpette, tutto ciò che gli serviva: il coraggio e l’altruismo da regalare a tutti loro. A tutti quei Nino del mondo, che un giorno non saranno Roberto Baggio.

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