giovedì 11 novembre 2010

Da Platone a Totti, quando pensare con i piedi fa diventare filosofi


Ci sarebbe piaciuto incominciare con un bell’epinicio alla maniera di Pindaro, con la coppa del mondo che splende più brillante di ogni altra stella tra i guantoni inoperosi di Buffon. E invece sappiamo bene com’è andata in Sudafrica, e perciò ci avanza appena una scolatura di Sartre. Poco raccomandabili per fare baldoria, dal retrogusto amarognolo, i soavi licori del francese sono cose da mescere in occasioni così. Diceva il messieur che il calcio è la metafora della vita. E quello espresso dalla Nazionale, è stato una specie di slide-show del nostro Paese: a prevalenza azzurra ma pieno di correnti interne, affidato a una cricca di quattro pensionati al servizio di Cesare, punitivo verso i giovani, tendente alla simulazione e allergico alle critiche. Sarebbe facile rifugiarsi nella nausea. Non fosse che i campionati del mondo, risvegliano con l’allenatore l’esteta che dorme in ogni tifoso di calcio. E che persino quelli più avviliti troveranno adeguato conforto filosofico nel nuovo libro di Giancristiano Desiderio, Il divino pallone, metafisica dei piedi da Platone a Totti (Vallecchi , 312 pagg.15 euro). Se vi state chiedendo che cosa c’entra il Pupone con la gnoseologia, Diego Maratona con la Critica del giudizio, e Pelè con Zenone, è il momento di aprire l’almanacco del pensiero: Heidegger era un'ottima ala sinistra, Derrida un buon centravanti e Camus giocava in porta. E se non pochi impararono a filosofare con i piedi, spiega Desiderio, in molti si servirono delle gambe altrui per tenere in piedi le proprie teorie. Ad esempio Wittgenstein giunse alla svolta del suo pensiero guardando una partita di calcio. E Merleau-Ponty snocciolò la fenomenologia parlando di pallone. Se ancora vi sfugge il nesso tra mondo del calcio e mondo delle Idee, chiedetevi come fate a riconoscere di solito una bella punizione, una prodezza dal limite o un dribbling ubriacante. Se vi frullano per la mente filmati d’archivio di Platini, Zico e Garrincha, non perdete tempo con i giudizi sintetici a priori perché sapete già tutto. Nel passare in rassegna le imprese dei calciatori più celebrati, l’autore mette in atto una fulminea serpentina nella storia del pensiero. E ne deduce che al centro del calcio c’è una serie di dualismi che sembra rubata di peso alla scuola di Atene. C’è la sostanza del singolo gesto tecnico, ma essa si dà nella forma che lo rappresenta, c’è l’individuo, ma questi esiste solo nella molteplicità, c’è la potenza ma essa si coglie soltanto nell’atto. Nel gioco del pallone c’è l’essere stesso che si mostra nell’ente. E c’è la perenne contesa tra gli infiniti condizionali che si affollano attorno al calciatore, nello stesso momento in cui questi entra in possesso di palla. Può passare, tirare, perdere goffamente il controllo del pallone. E può anche fingere un essere che non sarà: far finta di andare a destra per sgusciare a sinistra. Fintare un suggerimento sulla fascia, per dare in mezzo un pallone no look. Il calciatore, ci dice Giancristiano, è l’uomo stesso alle prese con il paradosso dell’esistenza. Nel momento in cui sceglie, impoverisce l’infinità del suo essere. Ma solo in questa finitezza, riesce a esprimere la sua specifica ricchezza. E qui, siamo a un dipresso del cuore del Divino pallone, e del pensiero occidentale stesso: nessuno possiede il gioco ma ciascuno ne viene posseduto. E vivere senza mettersi in gioco, sul rettangolo verde come nell’arengo quotidiano, è del tutto impossibile. È la disponibilità al dialogo, la precondizione per il fischio d’inizio di una gara. Ed è la necessità del dialogo, ciò che nutre l’autentica filosofia, quanto la ricerca della verità. Una speciale alchimia che è fatta di controllo e di abbandono, di smania di possesso e slancio altruistico, di spinta verso il limite e conoscenza dei propri confini. La stessa che vibra in uno stop di petto o in un triangolo stretto, in un dribbling azzardato o in una sgroppata sulla fascia, in un’azione alla Maratona o in un assist al compagno dopo quaranta metri palla al piede. Sul liso campetto di borgata come nel velluto verde del Maracanà, va in scena ogni volta il grande teatro dell’essere. È questa l’intuizione che accompagna le piacevolissime pagine di Giancristiano. Un’intuizione che si accompagna a un ammonimento: bisogna tornare al puro piacere del gioco del pallone, sempre più avvelenato da millantatori, magnati famelici e virus parapolitici. Se Goethe diceva che «i perché sono giochi che solo nelle imprevedibili domande dei bambini trovano la loro dimora», l'autore rovescia la prospettiva d'un balzo: nel gioco del calcio ci sono le imprevedibili risposte che noi adulti non sappiamo più ospitare. Non è un caso che il football più bello sia quello bailado dai brasiliani. Il calcio è una danza. O se Kant non si offende, un twist perenne tra il noumeno e il fenomeno.

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