mercoledì 13 ottobre 2010

Roma si ferma per un'ora per i quattro alpini caduti. Ecco la cronaca di un funerale annunciato

Roma. Sono le 10 e 15 quando le bare dei quattro alpini caduti in Afghanistan arrivano a Piazza della Repubblica. Ma già da alcuni minuti, l’Esedra è piombata in un silenzio tombale. Tace di botto la gazzarra dei clacson, annega lo scroscio della fontana di Rutelli. Si spegne l’abituale carosello di automobili che di solito circumnaviga le Naiadi con frasari coloriti. Nel giorno del cordoglio si è fermata ogni cosa. È in questo afono caos, che il portellone degli automezzi scorre sui cardini come gesso che stride su una lavagna. Fa male alle orecchie, il suono della morte. E così, quando i guanti neri compaiono ai lati del tricolore che fascia i feretri, schiocca un applauso stridente.

È sulle spalle dei commilitoni della Brigata Julia, che Francesco Vannozzi, Gianmarco Manca, Sebastiano Ville e Marco Pedone compiono l’ultimo viaggio. Alcuni metri circondati tra ali di folla, poi gli anfibi che scivolano sui sanpietrini si bloccano di sasso. C’è il picchetto che rende ai caduti gli onori militari. Volti addestrati a restare di pietra, piegati in smorfie di dolore, salutano i soldati italiani promossi a un grado superiore prima di essere sepolti. La banda dell’esercito intona Il Signore delle cime: è così che gli alpini affidano i loro morti alla “Signora della neve”. Ed è singolare coincidenza, che sia la stessa, apparsa come “luce più che neve bianca”, ad Antonio Del Duca. L’uomo che secondo tradizione volle edificare Santa Maria degli Angeli dopo un sogno fatto nell’estate del 1541. È proprio qui, nella basilica che MIchelangelo cavò dal tepidarium di Diocleziano, che entrano le bare dei nostri soldati. Varcano le porte dell’Annunciazione, mentre due carabinieri li salutano con i guanti bianchi ritti sulla fronte. Poco discosti, dietro di loro, i rappresentanti delle istituzioni. C’è il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, Gianfranco Fini presidente della Camera, una fitta schiera di ministri, da Matteoli a Frattini. C’è il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che stamane renderà conto della missione in Afghanistan in Parlamento. E poi i leader di Pd e Udc, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini, e ancora D’Alema, Vendola e Zingaretti. E infine Umberto Bossi, che rinuncia per l’occasione ad auspicare una diversa destinazione d’uso per il tricolore che adorna le bare. I feretri proseguono la marcia fino al limite delle navate, poi vengono deposti. La chiesa è gremita in ogni ordine di posti. Sul lato destro, nelle prime file, i parenti stringono sul petto le foto dei propri morti sotto gli occhi attenti di Giorgio Napolitano. A officiare la cerimonia funebre c’è monsignor Vincenzo Pelvi. «Caro presidente e cari familiari – esordisce il sacerdote nell’omelia – in questa chiesa è raccolta simbolicamente l’Italia che abbraccia come una madre Gianmarco, Sebastiano, Marco, Francesco». «Il vero dono non è dono di qualcosa, ma il dono di sé – prosegue l’ordinario militare – Il dono ha a che fare con la vita, e perciò anche con la morte. Dare vita è offrirla, qualche volta perderla. Invece chi dona solo il superfluo evita il rischio della morte ma mette a morte la dimensione del dono». Un passaggio anche sull’impegno dei militari italiani in Afghanistan. «I nostri militari – osserva Pelvi – sono coinvolti nel grande compito di dare allo sviluppo e alla pace un senso pienamente umano», e «dinanzi a tale responsabilità nessuno può restare neutrale o affidarsi a giochi di sensibilità variabili, che indeboliscono a mio parere la tenuta di un impegno così delicato per la sicurezza dei popoli. «I soldati caduti sono profeti del bene comune – aggiunge l’arcivescovo – decisi a pagare di persona ciò in cui hanno creduto e per cui hanno vissuto, erano in Afghanistan per difendere, aiutare, addestrare. I nostri militari sono coinvolti nel grande compito di dare allo sviluppo e alla pace un senso pienamente umano». Ma sul senso di un’operazione pacifica, al centro del dibattito come in ogni post-mortem tipico di questi sette anni sul fronte, monsignor Pelvi ha voluto precisare che «la pace non può essere considerata come un prodotto tecnico, frutto soltanto di accordi tra governi o di iniziative volte ad assicurare efficienti aiuti economici». «È vero che la costruzione della pace – aggiunge – esige la costante tessitura di contatti diplomatici, scambi economici e tecnologici, di incontri culturali, di accordi su progetti comuni, come anche l’assunzione di impegni condivisi per arginare le minacce di tipo bellico e scalzare alla radice le ricorrenti tentazioni terroristiche». Le esequie giungono alla fine. La meridiana sul pavimento del transetto, segna quasi la mezza ma la luce è molto fioca. È il presidente della Repubblica a rompere la grigia immobilità che gravita sulla chiesa. Napolitano si alza in piedi e raggiunge i familiari dei militari. Stringe loro le mani, più di quanto richieda un semplice saluto. Qualche parola a fior di labbra in un orecchio, poi è ora di andare.

I commilitoni del settimo reggimento caricano sulle clavicole gli spigoli delle bare di Francesco Vannozzi, Gianmarco Manca, Sebastiano Ville e Marco Pedone. All’uscita di Santa Maria degli Angeli, c’è un po’ di luce che annebbia gli occhi di tutti. Parte un altro applauso, poi i fiati della banda ne stornano l’eco. Risuonano le note di In pace per la pace. Si chinano i pennacchi sulle trombe, si piegano le teste e i fazzoletti in un’onda discendente, si snodano i groppi alle cravatte. Piazza Esedra è un catino di rabbia e dolore. «Portiamo nel cuore il sorriso meraviglioso di questi giovani», dice il monsignore. Poi le bare filano via. Ora è il tempo del Silenzio. (f.l.d)

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