martedì 12 ottobre 2010

Camera ardente per gli alpini morti in Afghanistan. E solito disperato nevrotico stomp by La Russa

Ciampino. Sono le nove del mattino quando il muso dell’ennesimo C130 taglia l’aria sonnacchiosa dell’aeroporto di Ciampino. E a bordo, di ritorno dal confine afghano del Gullistan ci sono ancora una volta dei soldati italiani, tornati morti da una missione di pace. Sotto una pioggia insistente ma composta, i feretri di Gianmarco Manca, Francesco Vannozzi, Sebastiano Ville e Marco Pedone sembrano muoversi al rallenty sotto un cielo terreo.
Ad accoglierli per l’ultimo saluto, in istanti lunghi come secoli, i familiari e gli Alpini del settimo reggimento di Belluno, colleghi di una vita. Alcuni di loro, sottovento, portano a braccia dei cuscini di velluto rosso su cui hanno sistemato dei cappelli alpini. Ci sono anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, il presidente della Camera Gianfranco Fini, il ministro degli esteri Franco Frattini e il ministro della difesa Ignazio La Russa. C’è anche una rappresentanza delle forze armate. La pioggia battente nasconde volti e dolore dietro un fitto capannello di ombrelli neri. Un’atmosfera tanto surreale, da far pensare a Golconde di Magritte. E poi, in rapida successione, a Ignazio che chiede le bombe per i nostri caccia. Intanto, il cerimoniale procede avvilente. Monsignor Vincenzo Pelvi benedice le bare dei caduti, e il Capo dello Stato le accarezza commosso tra gli applausi. «È come perdere qualcuno della nostra famiglia», commenta il maggiore Massimo Carta ai microfoni della televisione. «Sono stati un esempio e una guida per ognuno di noi» ha continuato. «La missione è sempre stata particolarmente rischiosa. Un serpente a sonagli». Ma se la compostezza marziale richiede parole prudenti, il dolore dei familiari invece esonda. Mentre le bare avvolte dal tricolore scivolano nel ventre del carro funebre, uno di loro si avvicina a Ignazio La Russa e gli dice a denti stretti: «Signor ministro, godetevi lo spettacolo». E lo spettacolo, inesorabile, procede più tardi alle 16, al Policlinico Celio. Nella camera ardente, le bare sono vegliate dai congiunti. Tra loro anche la giovane sorella di Pedone, che dà l’addio al fratello di ventitrè anni. Piange a dirotto con le braccia che stringono il legno freddo della bara. Sopra di questa, ha voluto lasciare un gatto di peluche e alcuni scatti. Tutto quello che le resta di Marco. Ma nell’ospedale militare ci sono anche molte penne nere. E poi persone comuni. Molte, rapide. Fanno degli inchini svelti, fanno la croce, e poi filano via con gli occhi bassi. Non è l’unica camera ardente, quella allestita nella Capitale. A migliaia di chilometri di distanza, a Herat, domenica ne era stata composta un’altra presso la sala ’Folgore’ del Regional Command West. È da lì che erano partiti domenica, i quattro soldati. Potevano essere cinque. Non fosse che Luca Cornacchia, ancora grave, ha sfuggito l’inevitabile: «Mio figlio è stato miracolato» ha detto sua madre. Che aggiunge: «Mio figlio mi diceva: i talebani sono sempre in agguato. Io non manderei nessuno in Afghanistan, si risolvano da soli i problemi».

Ma tra le nove e le sedici, dopo un breve trasbordo, si è svolta l’autopsia sui corpi dei soldati. Le indagini svolte presso l’istituto di medicina legale de La Sapienza di Roma dai professori Paolo Albarello e Ozarem Carella Prada, hanno confermato. La morte è sopraggiunta per «lesioni provocate da scoppio». Gli accertamenti medico-legali erano stati disposti dai pm della procura di Roma, Francesco Scavo e Giancarlo Amato, coordinati dall’aggiunto Pietro Saviotti. Il fascicolo aperto presuppone il reato di attentato con finalità di terrorismo. Conclusa l’indagine, i carabinieri hanno porvveduto al sequestro dei i rottami dell’automezzo «Lince» distrutto dallo scoppio. Per avere la relazione conclusiva dei carabinieri bisognerà comunque attendere sessanta giorni. Ma oggi, c’era anche un’altra città italiana listata a lutto. Scene di cordoglio a Belluno, dove penzolavano ieri dalle finestre molte bandiere italiane. Nella città che ospita il settimo reggimento della Brigata Julia, il corpo cui appartenevano Manca e compagni, il sindaco Antonio Prade ha invitato i concittadini ad osservare un minuto di silenzio. Non fa lo stesso il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, che però tronca il solito disperato nevrotico stomp che lo agita di default: «I parenti, in queste occasioni, hanno diritto a qualsiasi reazione emotiva», e auspica, al netto delle bombe sui caccia il ritiro delle truppe entro un anno. «La exit strategy passa per Roma», ha chiarito il titolare della Difesa accennando alla riunione degli inviati speciali dei governi occidentali a Kabul in programma a Roma alla presenza del comandante supremo della missione Nato in Afghanistan. Un doppio funambolico filo, quello che prepare le bombe e annuncia il ritiro, che attira su La Russa gli strali dell’opposizione. Il Pd boccia la possibilità di armare gli aerei, mentre l’Italia dei Valori insiste sul rientro immediato delle truppe. Proprio come, sul versante della maggioranza, il ministro leghista Luca Zaia. A sostegno di La Russa, c’è invece Cicchitto. «Se gli esperti riterranno che l’uso delle bombe potrà tutelare meglio i nostri ragazzi in Afghanistan e rafforzare il loro operato, allora dovremmo dare il via libera senza esitazioni», commenta il capogruppo del Pdl alla Camera. «Sbaglia – aggiunge Cicchitto  – chi parla di exit strategy solo in concomitanza con il dramma della morte dei nostri soldati». Sulle bombe a bordo è invece perplesso il leader delll’Api, Francesco Rutelli: perché «non hanno probabilmente le caratteristiche di precisione che sono necessarie in una situazione di battaglia».
Ma neppure il terribile cordoglio, sembra arrestare la montante imbecillità nazionale. Che stavolta si appalesa su un’iscrizione apparsa su un muro di Torino: “Afghanistan 4 Italia 0”, seguito da stella a cinque punte e falce e martello. Questa mattina a Santa Maria degli Angeli  i funerali di Francesco Vannozzi, Marco Pedone, Sebastiano Ville e Gianmarco Manca. Seguirà tanto rumore. Un paio di giorni. Poi di nuovo il silenzio. (f.l.d)


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