giovedì 28 ottobre 2010

Il generale Mori indagato per concorso esterno in associazione mafiosa: gli ultimi sviluppi della trattativa tra Stato e Mafia

Roma. C’è anche il nome di Mario Mori, nel registro degli indagati che i magistrati di Palermo chiamano in causa nell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia intrecciata durante le stragi del 1992. Sulla testa dell’ex comandante del Ros, già sotto processo nel capoluogo siciliano con l’ipotesi di avere favorito la latitanza dell’erede del Capo dei Capi Bernardo Provenzano, pende da ieri anche l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
L’iscrizione di Mori nel fascicolo aperto dalla Procura siciliana è confermata dall’avviso di garanzia consegnato lunedì a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo per il quale gli inquirenti ipotizzano lo stesso reato del generale dei Carabinieri. Inoltre, la Dia ha iscritto nel registro degli indagati anche i boss corleonesi Bernardo Provenzano e Totò Riina, e il colonnello dei carabinieri, Giuseppe De Donno, con l’accusa di attentato a un corpo politico o istituzionale dello Stato. I nuovi sviluppi giudiziari che hanno al centro il “papello”, seguono di pochi giorni l’avviso di garanzia che i sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido, e il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, hanno notificato a Rosario Piraino, ai quali i magistrati contestano la regia della trattativa tra mafia e istituzioni deviate, e il reato di violenza privata nei confronti di Ciancimino jr., che accusa l’agente di averlo minacciato affinché mantenesse il riserbo sugli scottanti incroci tra malavita e intelligence, ma anche sugli investimenti dei boss nelle aziende del Cavaliere. «Si presentò con il nome di capitano mentre ero agli arresti domiciliari – ha messo a verbale Ciancimino jr al processo che vede imputato Mori – chiese se mi ricordavo di lui con il signor Franco». «Disse: “Non ti chiederanno niente i magistrati – prosegue il figlio del sindaco corleonese – ma qualora lo faranno non è il caso che tu prenda argomento di carabinieri o di rapporti con Berlusconi. Tutte queste situazioni lasciale al di fuori del tuo processo”». Ma dietro l’imprevista accelerazione impressa alle indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio c’è per Massimo Ciancimino la conferma che le dichiarazioni da lui rese siano state considerate attendibili dalla procura palermitana. Raggiunto dall’avviso di garanzia, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, don Vito, ha commentato: «È l’atto che suggella la credibilità di quanto ho detto», e la risposta a «quanti nel tempo hanno detto che io avevo avuto questo atteggiamento, per ottenere favori e sconti». In particolare, le recenti acquisizioni documentali provenienti da casa Ciancimino sembrano aggravare proprio la posizione del generale Mario Mori. L’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, potrebbe infatti essere l’incunabolo di un mutamento dell’imputazione a carico dell’ex comandante del Ros, attualmente sotto processo con l’accusa di favoreggiamento aggravato a proposito della mancata cattura di Bernardo Provenzano. L’interrogatorio di Piraino, indicato da Ciancimino come il braccio destro dell’ancora misterioso signor Franco, difficilmente potrà fornire elementi utili ai magistrati, impegnati a dare un volto all’uomo misterioso che avrebbe curato la mediazione tra Stato e mafia. Un volto, che per il momento non ha neanche un numero di telefono. L’utenza al quale Ciancimino lo avrebbe contattato recava il prefisso 337, ma alla Tim è risultata inesistente. Un giallo nel giallo, perché i magistrati hanno scoperto che negli anni tutti i numeri di cellulare che recavano quel prefisso, erano stati invece attivati.
Ma le ultime notizie sul generale Mori provenienti dalla Procura che affronta il difficile nodo tra mafia e Stato, producono un riflesso pavloviano nella maggioranza. «La sua iscrizione nel registro degli indagati – dichiara il pdl Amedeo Laboccetta che è membro della commissione Antimafia – oltre ad essere risibile, pone una duplice natura di problemi». Laboccetta valuta il concorso esterno «una figura giuridica talmente labile ed imprecisata che consente alla Procure, attraverso maliziose catene di Sant’Antonio, di poter indagare chiunque per questo ‘reato’», e rilancia «i condizionamenti che la Magistratura può porre in essere». «L’attività di certi magistrati – si duole l’azzurra Jole Santelli – delegittima l’opera dell’intera magistratura, ma ciò che più dispiace è che dicono di ispirarsi al lavoro di giudici come Falcone e Borsellino». Sarebbe dispiaciuto di più, se si fossero ispirati a Metta e Squillante.

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