martedì 21 settembre 2010

«È ora di svelarlo agli italiani: con il federalismo sono a rischio un milione di posti di lavoro»

Roma. «Un progetto utopistico». Giacomo Vaciago, docente di Politica economica e Economia monetaria all’università Cattolica di Milano, boccia senza esitazione i nuovi decreti sul federalismo fiscale che saranno discussi giovedì mattina dai governatori alla Conferenza delle regioni. «Vorrei capire – si chiede il professore – quale esagitato ottimismo possa spingere a credere di definire dei costi standard comuni a tutte le latitudini del Paese: il Governo ha avuto a disposizione 149 anni, ma non mi pare che in tale senso siano mai stati prodotti risultati di qualche rilievo. E che il federalismo possa riuscirci mi pare abbastanza improbabile».
Professore, sono in molti a temere che il modello dei costi standard possa acuire il divario delle prestazioni. In primis quelle sanitarie. Anche lei nel club delle Cassandre?
Il punto di partenza del federalismo è ottimo: garantire risorse adeguate ai costi reali e premiare la virtù di gestione onde evitare sprechi. Difficile essere in disaccordo. Il fatto è che però non ci si schioda dall’intento iniziale. Si fissa il punto di partenza, senza disegnare il giusto percorso che conduca all’arrivo.
Sta parlando di programmazione, mi pare di capire.
Di programmazione, certo, ma anche di un autentico labirinto burocratico. Delineare dei costi standard è possibile se si prendono in considerazione grandi aggregati. Ma come si può pretendere anche solo di immaginare che si possano catalogare un’infinità di elementi base, che dalla otturazione di un dente arrivano fino al costo di una comune biro? Si tratta di un lavoro immane. Per la classificazione dei piccoli aggregati servirebbero 182mila pagine, roba da far perdere la testa anche agli amanuensi dei tempi d’oro.
Eppure tutti garantiscono che il federalismo è pronto in tavola.
Impresa ardua. Come si fa a determinare la qualità dei capitali umani, a conteggiare le rilevanti differenze di competenze e strutture sulle quali calibrare l’erogazione dei fondi? Trasformare l’assenteismo, l’inefficienza e la sbadataggine in elementi algebrici è un’operazione di alta ingegneria sociale. I divari di prestazione sono lì da un secolo e mezzo, e non credo basteranno un paio di decreti a fare piazza pulita. Ma di questo, sono sicuro che abbia contezza anche Tremonti.
Il ministro non è mai apparso troppo scettico, in proposito.
I costi medi sono una chimera teorica del Tremonti accademico, ma il Tremonti politico non può mentire a se stesso. Sa benissimo che i costi standard, in un Paese come l’Italia, non possono essere stabiliti con lavagna e gessetto.
Lavagna e gessetto. Torneranno molto utili tra qualche tempo, visto che l’80 per cento delle spese burocratiche è dovuto al pagamento del personale. In nome della virtù, è possibile immaginare una bella ondata di licenziamenti.
Ammesso che i costi medi possano essere fissati, imporre efficienza alle Regioni significa proprio questo: alti costi sociali, e un milione di italiani lasciati per strada come una zavorra. Che cosa ne facciamo di quanti verranno considerati superflui, di tutti gli stipendiati che fanno sforare il budget e rovinano la condotta virtuosa delle singole Regioni? Li mandiamo in Romania in stile Sarkozy?
Dei costi sociali dell’operazione non parlano in molti. Ma perché l’Italia è l’unico Paese al mondo dove dici “efficienza” e traduci “licenziamento”?
Questo federalismo è la riprova della filosofia di cui ha fatto mostra in molte occasioni questo governo. L’esecutivo ritiene troppo spesso che per decidere qualcosa basti scrivere una legge. La legge consente, ma se poi non si mettono a punto i meccanismi per realizzarla, questa rimane soltanto una noterella scritta sulla Gazzetta ufficiale. Questo federalismo fiscale resta una scatola vuota piena di promesse. Ma per realizzare davvero ciò che lo ispira occorrerebbero vent’anni: si tratterebbe di aumentare la produzione, di far crescere i redditi, di elevare la qualità del capitale umano. Non basta un decreto attuativo scritto in venti minuti per cambiare un Paese che resta immutato da 150 anni.
E d’altra parte, i governatori del Sud chiedono maggiori perequazioni.
Proprio così. Le perequazioni sono al momento necessarie. Non si può voltare pagina all’improvviso. Per colmare il divario tra Nord e Sud occorerebbe sapere da dove parte il treno, costruire i binari per farlo viaggiare, e sapere qual è la destinazione. Invece siamo in presenza di un disegno confuso appuntato su un foglio, che non elabora soluzioni capaci di colmare queste differenze qualitative.
La convince il federalismo in salsa municipale di cui parla il ministro Tremonti?
Le faccio io una domanda. Riesce a immaginare che paesini di 61 abitanti abbiano autonomia fiscale e tributaria? A me, francamente, scappa da ridere. (f.l.d)

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