mercoledì 14 aprile 2010

In Italia il film premio Oscar: Departures, l'amore che non muore si mangia il cuore a morsi.

Da Liberal 9 aprile 2010

I fari di un’automobile baluginano nell’inverno, a fendere la fitta nebbia che avvolge la strada. A bordo c’è Daigo, riluttante becchino che avanza a tentoni verso un punto di non ritorno. Dietro le sue spalle, un difficile passato che non ha mai smesso di inseguirlo. Davanti a lui, nascosta da qualche parte, il destino ha piazzato la sua tagliola.

Yojiro Takita, acclamato regista nipponico della pellicola che si è aggiudicata il premio Oscar come miglior film straniero del 2009 (che in Italia vediamo inopinatamente dopo più di un anno, e nelle solite quattro sale d’essai) sceglie di aprire Departures a metà del guado. Oltre la metaforica nebbia, in quella strada che è la plastica rappresentazione di un uomo al momento di svolta, c’è l’evento che avviluppa per sempre il personaggio alla sua storia. Quella di Daigo Kobayashi (Masahiro Motoki, vincitore del premio come miglior attore agli Asia Pacific Screen Awards ), violoncellista di qualche fama costretto a tornare nel borgo natio dopo il brusco scioglimento della sua orchestra, è subito segnata da una tragica ironia. In cerca di un nuovo lavoro, il nostro si presenta a una misteriosa agenzia che “organizza partenze”. La viva voce del direttore Sasaki (il magnifico Tsutomu Yamazaki, che ai fan di Kurosawa dirà più di qualcosa), dissolve poco dopo in presenza del giovane, l’elegante litote che maschera la vera natura dell’offerta di lavoro : «Prepariamo i defunti all’ultimo viaggio». È l’iniziazione ai riti della negrocosmetica, la sacra liturgia nipponica che trasformerà l’ombroso Daigo in nokanshi, che  nella lingua giapponese indica letteralmente “il maestro della deposizione nella bara”. C’è poco da stare allegri, la prudenza sollecita un rapido guizzo apotropaico. E invece Takita spezza un tabù e tre quarti di canone aristotelico, grazie a un plot che irride la dicotomia tragico-comica, e colloca il tono del film in una nebulosa affettiva di rara delicatezza. Delle salme dalle gote cotonate, dei tamponi che drenano via le fatiche di una vita, dei congiunti che lasciano il rossetto sulla pelle vizza dell’estinto, si può anche sorridere. Perché nel lento commiato della vestizione, che non è ancora trapasso ma smanioso addio, fluiscono al rallenty vite integrali. È lo spazio bianco prima del punto, il posto dove i muti colloqui tra cari ed estinti rimbombano come macigni. Accade in modo esemplare nel caso della giovane donna suicida che suscita in Kobayashi un esitante stupore («La salma ha il coso!», sussurra a Sasaki dopo averne asperso metà del corpo al riparo di un lenzuolo). E che spinge i familiari a una toccante pacificazione con il figlio che ha scelto di vivere da donna (sequenza da impacchettare e spedire alle giulive maitresse di alcuni recenti pomeriggi televisivi). Ma Daigo è pur sempre un praticante della morte, e il suo mestiere riserba insidie e riprovazione, nonostante nel Giappone di un tempo esso fosse svolto con foscoliana amorevolezza dai parenti del defunto. Il protagonista occulta la luttuosa verità, racconta alla moglie che il suo lavoro consiste «nell’organizzare cerimonie ed eventi». Pietose bugie che non bastano a togliergli di dosso il tanfo della morte (memorabile la laconica scena a bordo dell’autobus). Lo strappo con la moglie (Ryoko Hirosue, troppo compresa in piagnucolosi birignao), è a questo punto inevitabile.

Nonostante tutto, Kobayashi non ha la forza di lasciare la casa nella quale è cresciuto, la stessa dove la madre lo ha aspettato invano prima dell’ultimo respiro. C’è qualcosa che incombe nell’esistenza di Daigo. C’è un sasso misterioso che riaffora dal suo violoncello d’infanzia: è pronto a perdere ogni cosa, perché qualcosa preme dentro di lui. Ad alleviare la solitudine del protagonista, c’è ora il boss Sasaki, il maestro che di giorno in giorno lo addestra alle ferree leggi dell’esistenza. Takita inanella un lento susseguirsi di inquadrature fisse che disegnano un cinema dei padri, pronipote di Ozu che osserva la vita ad altezza tatami. La musica del maestro Joe Hisashi fa da contrappunto al violoncello di Daigo. Scorrono le stagioni, e la vita si mischia alla morte. Illegittima ma suadente, si affaccia la sensazione di comprendere nella pellicola di Takita, la straordinaria intuizione di Bazin: il cinema come complesso di mummificazione. Il cinema come terra di nokanshi, indulgenti tanato-esteti che sottraggono gli uomini alla morte. La poesia vola sulle ali di gabbiani, di salmoni che nuotano controcorrente per morire dove sono nati: a qualcuno spiacerà quel po’ di appretto didascalico e gli agili simbolismi di cui il regista trapunta il narrato. La verità è che la filmografia del Sol Calante non ha più il talento necessario per azzardare il semplice. È il momento di Okibito, straordinaria soundtrack del maestro Hisaishi: l’emozione si inerpica fino in cielo per poi piovere a dirotto in note divine. Dritte verso un finale che mangia il cuore a morsi. Daigo ritrova in casa la moglie fuggiasca. Lei ritrova il bandolo di un marito perduto. Prima c’è un ultimo indugio, la voglia di evadere e di perdere la rotta. E invece la nebbia si rischiara, e un telegramma riporta l’eroe alla fine della strada. All’origine di sé ci sono vetri in frantumi che prima o poi fanno inciampare nell’infanzia. Scatta la tagliola, è il momento che il cauterio bruci la ferita. Viatico è la morte di cari e sconosciuti, l’ultima carezza in cui scrivere l’amore: come in un sasso da custodire per sempre nella tasca. (f.l.d)
 

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