venerdì 26 marzo 2010

L'Italia compie centocinquant'anni: i parenti serpenti fanno la festa alla vecchia zia

Tra coriandoli avvizziti e trombette sfiatate l’ Italia sta per spegnere centocinquanta candeline. Basta guardarsi attorno per accorgersi che è un compleanno malinconico. La festeggiata somiglia tanto a una vecchia zia che non gode di buona salute. E gli italiani sembrano nipoti da tempo distanti, che cercano di farsene un vago ricordo dai tempi delle elementari. I motivi di unione, di quelli che ti fanno cantare fianco a fianco alle feste, sono pochi e non troppo lieti. Quella nostra sembra una famiglia in cui ciascuno è andato per la sua strada. Se ci si ritrova insieme per qualche minuto, è solo per maledire il gelo d’inverno o lamentare le tasse o gli acciacchi. La cronaca, da mesi e mesi, suona come un disco rotto: festini, favori, ricatti, corruzione. C’è chi tuona, chi invoca indulgenza, chi se la prende con apposita legge. Il nostro Paese sembra un Titanic che galleggia nel suo baratro. Mentre imbarchiamo acqua, non c’è neanche un violino che continua a suonare. Continua soltanto una zuffa ossessiva e maniacale, che non lascia all’osservatore nemmeno uno scampolo di compassione. Perché gli italiani, oggi come non mai, sono accomunati soltanto da costumi sin troppo disinvolti, e abitudini morali piuttosto spregiudicate? Qualche spunto di riflessione può essere trovato in un recente saggio di Antonello Caporale: Peccatori (Baldini Castoldi, 272 pagg. 18 euro).  Un titolo biblico, sfacciatamente moralistico. Che esprime però in modo preciso, l’essenza di questo disfacimento. Più che trasgressori di leggi divine, gli italiani somigliano a funamboli sul filo del senso etico. È qualcosa di simile a una religione civile, ciò che ci manca. Qualcosa che leghi insieme e ci tenga stretti, nel senso originario di religio. Non è un fatto di fede, di quella che abbonda sulla bocca di tutti. È piuttosto una visione complessiva di se stessi come parte di un sistema più ampio. Molto più grande dell’arcinoto particulare contro cui si scagliò secoli fa Guicciardini. Fuori da uno Stato efficiente, capace di rassicurare le nostre vite e quelle dei nostri familiari, noi italiani ci comportiamo come cellule impazzite. Incapaci di integrarci in un organismo sano, provvediamo a noi stessi con i mezzi più disparati. Scatta la furbizia, lo spregio della regola, l’irrisione di chi non fa come fanno tutti. Si innesta l’ammirazione per l’uomo di ventura rotto ad ogni vizio ma ripagato dal trionfo. È come se ogni italiano si sentisse superstite di un naufragio. Siamo brava gente, sembriamo dire. Il problema è che sono tempi duri. Un refrain isolato, che ripetizione dopo ripetizione è diventato il nuovo inno nazionale di una Nazione che si autoassolve sempre. Ma un popolo pronto a tendersi la mano, solo perché un’altra gliela ripulisca alla meglio, non è un popolo. La festa dei centocinquant’anni deve farci pensare. Giù il volume, abbasso la retorica. Fermiamoci prima che il tappo salti, e lo champagne colerà via dai nostri bicchieri.(f.l.d)

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