venerdì 26 marzo 2010

Il codice di Springsteen, manovale della musica che prende a sassate un mondo di plastica

A vederlo sprigionare fiamme e ambrosia dall’acero consunto della sua Telecaster, mescolate alla voce che sale dal petto e si spezza in milioni di onde che mandano a gambe all’aria il silenzio, pensi che una mano santa si sia posata sulla sua testa brizzolata. E che dentro la camicia brunita, dove il collo pulsa accelerato a battere i quattro quarti del rock’n’ roll, si siano annidati quegli speciali antiossidanti che le entità celesti lesinano alla maggior parte dei mortali. Perché Bruce Springsteen, a quasi sessant’anni suonati, di cui oltre quaranta benissimo, si affaccia sulla soglia della sesta decade con lo spirito di chi resta ruggente e indomabile. Dopo averlo sentito tenere banco per tre ore di fila, l’altra sera all’Olimpico di Roma, intuisci che le molecole del Boss obbediscono a un’osmosi segreta: di fiato ne ha da vendere perché lo ruba alle migliaia di persone cui lo toglie. Ce ne sono di leggende del rock, riconfezionate nella fabbrica della reunion postmoderna. Sono passati dalla camera iperbarica dello show business i gualciti polmoni dei Rolling Stones, i cuori esangui degli Eagles, i vetusti precordi dei Beatles in ordine sparso e le più imprudenti ugole che hanno tentato di replicare quello che Freddie faceva in terra, anche se era made in heaven. Altri, come Jimi Hendrix e Jim Morrison, hanno passato la mano una volta per tutte, prima che il sondino nasogastrico del business li trasformasse in pupazzi a molla. Ma il fatto è che Bruce, il ragazzo cresciuto nelle strade del New Jersey, non è uno di quei miti che a volte, troppe volte, ritornano oggi tirati via per i piedi della Hall Of Fame, come vecchi Tutankhamon incollati alla gloria. Lui non è mai davvero tornato perché è uno di quei miti all’antica. Di quelli che non hanno bisogno di riapparire, perché semplicemente continuano a esserci. È stato dopo l’undici settembre, che finalmente si è svelata la forza inesausta del codice Springsteen. Lui ribelle, lui eroe della working class che diventò manovale della musica da quando la mamma si indebitò per mettere nelle mani di quel tredicenne rissoso una chitarra e mille sogni rabbiosi. Lui che da Ground Zero, levò in cielo tra le bandiere a stelle strisce My city of ruins. La stessa che a Roma, in apertura del concerto, ha tributato a quarantamila persone, e a due o tre generazioni, in ricordo del terremoto d’Abruzzo. «Siamo qui per mantenere una solenne promessa – ha spiegato il Boss alla folla – : costruire una casa di musica, di spirito e di rumore». Perché Bruce di rumore se ne intende davvero. È uno dei pochi uomini di mezza età, ancora capace di beccarsi una denuncia per disturbo della quiete pubblica per un concerto, proprio come accaduto a San Siro lo scorso anno. Ma soprattutto è uno, ed è questo il segreto del codice Springsteen di cui dicevamo, che ha raccolto sulle sei corde la melodia ininterrotta di un sogno. Il desiderio cioè di distillare in note d’acciaio e parole vibranti, lo spirito inquieto della sua nazione insieme ai sussulti di un’intera epoca. Working on a dream, si intitola il suo ultimo album. In omaggio a un costante lavorio su ombre e luci che si sono rifratte nella sua tempra battagliera, ora sotto forma di riff bellicosi, ora in lirici mood sciolti come elegie a un mondo brutale, il Boss ha scavato negli anfratti della modernità. Ha scovato gli umili e i semplici negli angoli di strade abbandonate dal progresso, ha inferto colpi letali a mitologie spacciate dai pusher della modernità a una società ormai lisergica, che ha votato altari ai truffaldini tour operator del benessere globale, low cost ma a tutti i costi, costantemente in sovraimpressione mentre per popoli interi scorrevano i titoli di coda della speranza. E a guardare la stessa architettura messa in piedi per l’esibizione dell’altra sera all’Olimpico, capisci perché la giovinezza del boss, unica tra tutte quelle dei rocker riapparsi, non è mai avvizzita. Sul palco, oltre alla fida E Street Band, non sembra esserci null’altro che lui. Quando attacca Badlands, non c’è nessuna porcheria stroboscopica, non ci sono ciurme di ballerine in mise ascellari né fumisterie videoclippare. Non c’è nessuna gigantografia idolatrica, nessun ologramma o jingle furbetto. Per essere grande, gli basta essere un puntino. Abbagliante e lontano, il Boss ti prende l’anima a sassate senza neppure bisogno di una fionda. È nato per correre, pensi, perché é sempre stato più veloce di ogni cosa. Più rapido dei simulatori vocali che hanno messo le Britney Spears nella condizione di vendere le tette nell’idea che fossero dischi, più rapido delle fucine pubblicitarie che ci fanno comprare gli irsuti capelli di Pete Doherty a rimborso di una voce che c’entra con il rock come l’epilady con un orangotango. Più sfuggente del rock stesso e delle trappole mediatiche, Springsteen non ha mai rifritto suoni e messaggi in facili ricette a base di overdose, alcol e pestaggi. Monumento alla salute, il Boss ha solo spacciato adrenalina pura. Autoprodotta con la fatica delle sue bracciate, nutrita di tenerezze liriche e fragorosi tormenti. Si è preso sulle spalle i fardelli di una Spoon River senza più cantori, per spiegare a tutti che il mondo poggia le sue agili falcate sulle ossa dei morti. Lui che testimonia ancora l’America di Steinbeck e delle praterie sconfinate, che incontra a notte fonda lo spettro di Tom Joad e sa che l’avventura nell’esistenza, per molti non coincide con la roulette di Las Vegas. Ha cantato il Vietnam quando tutti si credevano Beach Boys, ha raccontato le periferie quando ancora molti pensavano a come trasformarle in rutilanti feste mobili dell’hip-hop, ha fatto la guerra insieme a tutti quelli che chiedevano la pace.
Nel suo infinito repertorio si tengono insieme le piccole storie insieme alle grandi, secondo l’antica tradizione dei bardi. Perché di nient’altro si può parlare, quando bimbi ancora in fasce e adulti stempiati, donne di ogni età e uomini d’ogni mestiere accorrono ai suoi concerti. Fanno incetta di storie e leggende in questa «casa di musica e di spirito». E, come dinanzi a un focolare che trabocca di suoni e canti roventi, ritrovano la breccia per sentirsi ancora uguali. Ancora uomini che in questo globo, camminano sulla stessa terra. (f.l.d)

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