lunedì 1 febbraio 2010

Tra cretinate e abbagli, se ne è andato Salinger, l'uomo in fuga dalla vita schifa che avrebbe impugnato un fucile contro Baricco

Da Liberal 30 gennaio 2010

Era stato buon profeta, quel cocciuto novelliere che abitava a Cornish. Aveva lasciato la vita schifa di Manhattan, per rifugiarsi nel New Hampshire. Per lui che accoglieva i fans a colpi di pallettoni, essere lasciato in pace era diventato una specie di mestiere. E così, pur di fare l’ultimo dispetto ai suoi scocciatori, ha deciso di morire. Solo un po’ più vecchio, ma arrabbiato come sempre. Anche dopo morto. Salinger l’aveva detto: una volta tirate le cuoia, avrebbe voluto essere scaraventato in un fiume. Ma tutto, da quando non c’è più, è proprio come l’aveva immaginato. Gente che gli mette mazzi di fiori sulla pancia, e che insieme ai coccodrilli poggia sulla sua lapide una cospicua dose di cretinate.

C’è chi gli sussurra in un orecchio che è stato «Il Che Guevara dell’upper class pre-globalizzata», chi gli rimprovera di aver fatto sfoggio di stile ma che in fondo ha assemblato temi e situazioni trite e ritrite, chi non concepisce che abbia potuto scrivere un solo romanzo. E chi gli fa pesare inorridito il disimpegno. Un’occasione propizia per scoprire, ad esempio, che secondo i criteri di analisi in voga qui da noi, Canova è formalmente perfetto, ma nella sostanza è solo un pirla che ha copiato Mirone e Policleto. O che Moccia ha ragione a pubblicare tutto quello che gli viene in mente, senza scusarsi mai se qualcuno lo chiama orrore.

«La fama di Salinger – dice a liberal Alfonso Berardinelli, critico che ha dedicato numerosi saggi alla letteratura italiana – sembra essere affidata alla sua opera più famosa, in italiano Il giovane Holden, e alla sua meravigliosa misantropia. Quel suo famoso personaggio ha avuto il torto di aver dato il nome alla scuola di scrittura Holden di Baricco. Se Salinger avesse visto Baricco, forse lo avrebbe fatto scappare imbracciando il suo fucile. Questo strano rapporto Salinger-Baricco è uno dei segni di quanto spesso la fama letteraria sia fondata sul travisamento. Riuscire a immaginare Salinger che dà lezioni di scrittura creativa? Non è riuscito a darle neppure a se stesso, tanto è vero che quanto a creatività ha presto smesso del tutto». «A chi gli rimprovera l’ostinata fuga, bisogna rispondere che è privilegio di pochissimi fare un unico atto immenso e poi dissolversi nel niente. Magari fosse così per tutti, lieviterebbe il numero di scrittori veri, e sarebbe molto più facile riconoscere quelli fasulli – argomenta Raffaele La Capria, decano dei narratori italiani – È auspicabile che un grande scrittore, riesca a dire tutto ciò di cui ha bisogno in un’opera unica. Dovrebbe essere il sogno di chiunque si confronta con la pagina. E poi Salinger ruppe l’odioso precetto dell’obbligo di frequenza. La realtà può essere raccontata una sola volta, perché nessuno deve imporre a chi scrive, di interpellare di continuo i fatti che gli si parano dinnanzi. Non si riceve la patente di intellettuale dietro prescrizione medica. «Quando The Catcher in the Rye fu dato alle stampe – racconta Gordon Poole, docente di Letteratura nordamericana che da più di cinquant’anni insegna l’amore per Hemighway e soci all’ Orientale di Napoli – avevo la stessa età di Holden Caulfield. E nelle parole di quell’irriverente ragazzino, come tanti giovani americani di allora, sentii di aver trovato, finalmente espresso, quell’inconfessabile disagio di cui allora soffrivo interiormente. Era il tempo del maccartismo e del sorriso imposto per decreto. Dalla musica alla cultura, era tutto un pullulare di sorrisi. Nella canzoni fiorivano smile e love, l’ottimismo si era fatto dogma e l’happy-end colorava le pellicole. Il libro di Salinger ci tuffò nel dubbio e nell’inquietudine e ci obbligò a ripensare noi stessi. Ad andare oltre quello che ci insegnavano i libri. Ricordo ancora di un mio vecchio professore gallese di filosofia alla Boston University che si interrogava insieme a noi studenti sui criteri che distinguono il vero dal falso. Io, con un po’ di arroganza giovanile, gli risposi che il modo giusto era distinguere per intuito ciò che era autentico da ciò che invece era phoney, fasullo. L’avevo imparato da Holden».
E della comparsa de Il giovane Holden, porta con sé un vivido ricordo anche Raffaele La Capria: «Mi ricordo di averlo letto con passione non appena uscì. Dentro quelle pagine sentii subito una forza nuova. Era come se da quelle righe scomposte e scapigliate, così come potevano apparire di primo acchito, si trasferisse d’un colpo nella letteratura occidentale quell’atmosfera zen che veniva dall’Oriente. C’era una valutazione dell’attimo che si rarefaceva subito ma scompigliava il modo di vivere il tempo, tipico del mondo occidentale. Un approccio che scardinava la ragione dai suoi perni e modellava una diversa percezione. In Salinger lo stupore e la meraviglia, diventavano i nuovi cronometri del mondo. Non si trattava di un’invenzione studiata, ma piuttosto di una scoperta. Holden riportava alla luce, sepolto tra le macerie positiviste, il diritto all’inadeguatezza, al rifiuto che non si faceva ricattare dall’obbligo della soluzione. La difficoltà di essere adulti non apparteneva soltanto a quel giovanotto, ma ci strappava tutti, d’un tratto, da quell’enorme sipario che nascondeva la modernità». «Tutto ciò che Holden sapeva – gli fa eco Poole – era in ciò che vedeva intorno a lui, senza filtri o lezioni di vita preimposte. In lui c’era l’istinto puro, l’incanto o il disgusto che affioravano a pelle e non lasciavano scampo all’intelletto. Dopo Il giovane Holden, noi ripensammo alla libertà, e ci mettemmo in discussione: capimmo che non tutto può sottostare all’imperio della ragione. Proprio come teorizzava Marcuse: la razionalità oppressiva del sistema andava contestata dall’irrazionalità rivoluzionaria. A molti giovani americani il pragmatismo non bastava più. Holden ci aveva mostrato ciò che si nascondeva nei nostri sorrisi. Nel suo incantato disincanto, nel suo impietoso candore, c’era già l’America di James Dean e di Marlon Brando, della psicoanalisi freudiana di massa e dell’Actor’s Studio. Certo, ognuno sapeva già di essere infelice, ma ora imparavamo a esprimere la nostra infelicità, a confrontarci, quindi a porla come problema, non solo privato ma collettivo. Basti pensare che quel disagio descritto da Holden si articolò come punto di partenza della Dichiarazione di Port Huron, documento fondamentale per l’SDS (students for a democratic society) e per le lotte degli anni Sessanta».
Non è poco, per quell’asociale di Salinger. Quello del one-shot più invidiato del Pianeta. «Holden fu il vindice profeta della scomparsa di Salinger. Lo nascose per sempre nei suoi diciassette anni, affinché restasse per sempre nella luce. Una e una sola volta, per tutta la vita. Come un lampo che si fissa per sempre nella grande fotografia del mondo», commenta La Capria. «Alcuni si sono chiesti per quale insondabile ragione questo scrittore abbia smesso di scrivere. In fondo credo che oggi appaia incredibile ciò che non dovrebbe mai esserlo. Per quale mai ragione dovrebbe essere garantito che un artista, come un impiegato o un burocrate, debba continuare a produrre arte per tutta la vita?» – si chiede Berardinelli –. Le ragioni per cui si scrive sono così tante che nessuno può immaginare di averle a disposizione ininterrottamente. Nel caso di Salinger credo la ragione più ovvia potrebbe essere questa: semplicemente non aveva più voglia di comunicare alcunché né ai suoi connazionali né al genere umano. Forse era disgustato da quelli che potevano essere i suoi lettori. Succede. Naturalmente tutto questo in un’allegra scuola di scrittura non è concepibile. Ma la letteratura non è detto che vada d’accordo con le scuole in cui si insegna».

Forse Salinger aveva fatto abbastanza. Aveva fatto molto di più di un romanzo, per pretendere di ripetersi. «Negli anni Sessanta Holden rappresentò l’urgenza di faredrop-out, di abbandonare il sistema per rifare il mondo daccapo. E a partire da Salinger, la beat-generation mise al centro delle sue istanze di ribellione, quella ricerca interiore sperimentata da Caulfield», spiega Poole. «C’è un paradosso, che mostra quale sia stata l’importanza di Salinger – conclude il professore – Lui, scrittore in fuga dal mondo che si radicò in un’ostinata solitudine, contribuì alla politicizzazione di una massa di giovani che combatterono per un mondo più vicino ai loro desideri, più libero, più giusto». «Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti», diceva Salinger. Un po’ ci mancherà pure lui. (f.l.d)

Nessun commento:

Posta un commento