mercoledì 3 febbraio 2010

Fred Buscaglione, una vita in prestito da Hollywood

Da Liberal 3 febbraio 2010

Era un mercoledì 3 febbraio, proprio come oggi. Ed era un’alba. Da una parte, all’incrocio tra via Paisiello e viale Rossini, quartiere Parioli, c’è una Thunderbird che scivola sull’asfalto. Dall’altra un camion Esatau carico di porfido. Di qua, un uomo che ha appena finito di lavorare. Di là, un giovane che ha appena iniziato. L’urto è violento, l’auto ha la peggio, il ragazzo scende dal camion e soccorre l’uomo. Accorrono un passante e un metronotte. Si ferma anche un autobus che carica l’uomo, e si lancia in una folle corsa verso l’ospedale. Fu così, in quel livido inverno di cinquant’anni fa, che se ne andò Fred Buscaglione. Un banale incidente come tanti, forse. O forse solo lo schianto di un artista che correva troppo veloce, per non frantumarsi contro quell’Italia degli anni Cinquanta. La Signora con la falce lo sapeva che Freddy era uno che odiava l’alba. Era il momento più distante dal suo bicchiere, dalla notte tenera che nel fondo di un whisky sapeva mettere il cielo di un bar, insieme al rammarico di una donna perduta.
E proprio alle prime luci del mattino se lo trascinò con sé: l’auto americana color lilla che luccica per metà. L’altra inghiottita nel fianco di un tir. Più che un documento del tempo, una foto di scena tratta di peso da Hollywood. Sembra esserci stato Jacques Tourneur, a girare la fine di Buscaglione. Ma il contributo di Scorsese, Howard Hawks e Otto Preminger non è trascurabile. Si parte con il social drama. Padre imbianchino, madre portinaia che strimpella il pianoforte, Freddy è un ragazzo solare quanto vuoi, ma povero e un po’ indisciplinato. I genitori lo indirizzano al mestiere di fattorino, lui invece ama la musica. E lei lo ricambia subito. Più precoce di Shirley Temple, mette piede nei locali notturni e strappa applausi: canta, suona basso, pianoforte, violino e tromba. Più che un bimbo è già un jazzista con il sigaro in bocca e la faccia da schiaffi. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, la sua vita potrebbe diventare una di quelle anonime alla John Houston. Why we fight, dove si muore e nessuno sa il tuo nome. E invece no. Il suo dramma bellico assomiglia a un musicarello di Celentano. Lo mettono su un palco, a sollevare il morale delle nostre truppe, perché il Busca non è tipo da alzabandiera. È troppo divertente, per morire così presto. Lo capiscono anche gli americani, quando lo fanno prigioniero. Lacrime amare? Macché, il giovanotto entra subito nell’orchestra alleata di Cagliari. Mentre tutti sono impegnati a morire, lui prende appunti per lo swing. Finita la guerra, entrano nel suo repertorio bulli e pupe di Chicago, risse e alcol, macchiette e gangster alla Scarface. Quando canta lui, sulle mattonelle luride degli infimi locali in cui si esibisce in giro per l’Europa, è tutto un ticchettio di suole e di polpacci che dondolano. Che bambola, Teresa non sparare, Eri piccola così: i frizzi e i lazzi, i fischi insolenti alle belle signore e le gag da cabaret. Il racconto di Hollywood e l’avanspettacolo. Fred indossa un cappello a falde larghe, baffetti alla Gable e un gessato alla Scarface, e da un momento all’altro ti aspetti che tiri fuori una pistola. Beone e screanzato, le donne lo adorano. Gli uomini lo imitano. E lui gigioneggia sempre di più. È come un Fitzgerald che ha imparato il solfeggio. Se Tenera è la notte fosse stato cabaret, sarebbe stato una canzone di Fred Buscaglione. Lui, la malinconia la tiene per le sue notti, quando inforca la sua Thinderbird «criminalmente bella», dopo essersi scolato l’impossibile. Un soggetto perfetto, perché nella trama non appaia una dark lady. La sua la incontra a Lugano. Si chiama Fatima, maghrebina, pelle di luna. Fa l’acrobata e la contorsionista, ma le migliori doti da funambola deve tirarle fuori per resistere alla corte del Busca. Stecchita. I suoi genitori la menano con la storia del bianco usurpatore. Fred risolve il conflitto multietnico a modo suo. La scena dell’amore, a metà del copione, è questa: in una notte di neve Fred se la porta via su una slitta trainata da un cavallo. Fu così che andò. Sette anni di matrimonio tra burrasche e spettacoli fianco a fianco. Poi le corna e i rotocalchi, la fama e le burrasche. I pettegolezzi dicono che Buscaglione abbia fatto cadere ai suoi piedi l’idolo degli italiani. Anita Ekberg e chissà chi altre. Dive che al suo cospetto diventano groupies. E che gli portano via per sempre la sua donna. Fatima sbatte la porta e se ne va. A Fred si spalanca quella del cinema, ma nessuno nota la differenza. Decine di film, lo stesso personaggio: un irresistibile spaccone che spacca in due la morale. Un animale da night, che arriva direttamente sul set senza neanche passare dal letto. O magari solo per roba fugace. E poi la tv, la pubblicità, la radio. Dappertutto c’è Fred, Fred il duro.
Come un Marlon Brando dotato di ironia. Come un James Dean capace di calamitare gli sguardi anche quando parla. Quando scomodi i miti, il cinema ti fa sempre pagare dazio. Siamo alla seconda svolta, al turning point che nei film di Hollywood tracciano la discesa, e l’ingresso della morale. Fred dice a Stampa Sera che è stanco di fare il duro. I più attenti sentono nelle sue ultime performance una vena più malinconica. Guarda che luna, Love in Portofino, Non partir. Un po’ di crepuscolo, l’ombra di Fitzgerald in piedi nel buio. Fred ha trentotto anni e qualcosa si è spezzato. Alberghi, night, alcool, bilanci. È il tempo dell’eroe che sogna il cambiamento, ma è troppo solo con se stesso per farlo. Una sterzata, «Voglio tornare a essere Ferdinando Buscaglione, basta con Fred il duro», dice. Tre settimane dopo è a bordo della sua Thunderbird, a quell’incrocio tra via Paisiello e viale Rossini, quartiere Paioli. Uno schianto se lo porta via in quel 3 febbraio 1960. È l’alba di un altro giorno, e quella del boom. Ma Fred di quel mondo sapeva già tutto. (f.l.d)

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