martedì 10 novembre 2009

A Roma uno scultore straordinario: Calder, l'ingegnere al servizio dei sogni


«Calder non suggerisce nulla: cattura dei movimenti reali, vivi, e li plasma. I suoi mobile non significano nulla, non rimandano a nulla se non a se stessi: esistono e basta, sono assoluti. Del mare Valéry usava dire che ricomincia di nuovo, sempre nuovo. Un oggetto di Calder è come il mare. È come un motivo di jazz, unico ed effimero, come il cielo, come l’alba. Se vi è sfuggito, vi è sfuggito per sempre». È una delle più profonde suggestioni poetiche, quella che le creazioni di Alexander Calder suscitarono in Jean-Paul Sartre. E anche una delle più fervide. Perché delle opere dello scultore di Lawnton, è giocoforza parlare se non in termini che dalla staticità impressa alla materia grezza dallo scalpello, scollinano nella fuggevolezza della natura, o nella ”riserva indiana” del jazz. Perché proprio come nel jazz la tenue traccia musicale, l’esile supporto metallico che snoda nell’aria la forma cangiante, diventa in Calder musica irripetibile, che tramuta l’onda sonora in marea inafferabile.
Cresciuto sotto l’influenza di Joan Miró, Jean Arp e Piet Mondrian, Calder coniugò l’ astrattismo europeo, coltivato in origine in pittura, con un estro pragmatico tutto americano. E così, ingegnere e sognatore, legò con il filo di ferro due estremità impossibili: la fermezza scultorea e la cinetica del vento. Risultato di un paradosso, nacquero i mobiles. Marcel Duchamp chiamo così quelle nervose lamine di metallo che avvinte in arabeschi di ferro sospendevano la fisica in uno continuo sciabordio dell’aria. Mandando a farsi benedire l’hic imposto alla materia greve, in un nunc che di continuo ridefinisce la stasi e la modella sul capriccio dell’istante. Geometria volatile al servizio della fantasia, il teorema di Calder. Che man mano, impressa alla linea astratta l’imprevedibilità della vita viva, riammette la natura sulla sua soglia. Arrivano dunque fogge ispirate al mondo organico come Cono d’ebano (1933, collezione privata) e Squalo e balena (1933, Musée national d’art moderne, Parigi), e il riuso di materie naturali, come rami d’albero e pietre. Dalla tela alla lamina, fuoriuscita dalla ristrettezza della cornice come dal giogo degli assi cartesiani, l’opera scultorea non più inerte, è matura perché non possa più temere l’aperta campagna del mondo. Accade con Steel-Fish (1934, collezione privata). E accade con la fine della seconda guerra mondiale, quando fuori dalle teche, la sua arte giganteggia en plein air. Non più esili ma mai del tutto ferme, le stabiles (definizione di Jean Arp) si ancorano a una terra ferita tenendone insieme le crepe. Uno slancio appassionato che proietta nel cielo le sagome vivaci di animali festosi. Ecco Le Tamanoir apparire a Rotterdam, Le Halebardier (1971) ad Hannover, Têtes et Queue (1965) a Berlino. Dal moto alla stasi, si potrebbe supporre. E invece, in quelle creature metalliche, dai colli nodosi di quelle giraffe che sondano il vento, spira ancora, miracolosa, la sfida titanica dell’artista. Quello che non riuscendo a plasmare la vita dalla sua opera, la predispone affinché il suo soffio l’attraversi. (f.l.d)

Da Liberal 10 novembre 2009

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