martedì 3 novembre 2009

Premio Nobel a Herta Muller, paladina degli oppressi


   
«Attraverso l’intensità della sua poesia e la franchezza della prosa dipinge il panorama dei diseredati». Recita così la motivazione che ieri ha assegnato il premio Nobel per la letteratura a Herta Müller. Assai nota all’estero, e considerata come una delle più influenti scrittrici di lingua tedesca contemporanee, la scrittrice nata nel Banato Svevo, area geografica passata sotto il controllo della Romania in seguito alla Seconda guerra mondiale, non è ancora molto nota in Italia, dove sono stati pubblicati soltanto Il paese delle prugne verdi per le edizioni Keller e la raccolta di short-storiesBassure per David Editori Riuniti.


«Mi piacque molto la forma, la scrittura sintetica e asciutta che non cedeva mai ai facili effettismi, la capacità di descrivere con immagini icastiche e spesso morbose, le miserie del socialismo reale, senza mai cedere di un millimetro alla retorica – spiega a liberal Fabrizio Rondolino, giornalista e scrittore che nel 1987 curò proprio la traduzione di Bassure –. Quei racconti diffondevano nel lettore una sensazione di inquietudine, perché mai niente era detto in maniera esplicita. Il disagio e la sofferenza di quel mondo freddo, inerte, affioravano dalla nuda prosa sotto forma di piccoli particolari. Polvere di mattoni, foglie di granoturco, mosche dappertutto. Ogni cosa viveva in quelle parole secche e concise in una foggia assolutamente realistica, che allo stesso tempo rimandava a qualcos’altro. Si può dire in quel mondo rurale, in quella natura ostile e tetra, aleggiasse l’inconscio del comunismo. Qualcosa che era molto distante dagli elogi delle cooperative agricole graditi a Ceaucescu». E in effetti i rapporti tra la Müller e il dittatore romeno, non furono certo ispirati alla serafica letizia che spira nelle ecloghe virgiliane. «Fino ai tardi anni ’90 – racconta Franz Haas, docente di Letteratura tedesca contemporanea all’università di Milano – Hertha era stata minacciata da uomini riconducibili alla Securitate del regime. Nessuno le perdonò mai la sua condizione di dissidente, che la costrinse a lasciare la Romania nel 1987. Ricevette peraltro strane telefonate anche in Italia, dove si aggiudicò una borsa di studio a Villa Massimo, l’accademia tedesca di Roma. Nonostante tutto, non si è mai lasciata intimorire e ha continuato a testimoniare scomode verità. Il suo ultimo romanzo, ancora inedito in Italia, racconta di un poeta realmente esistito e molto noto in Germania, Oscar Pastior, che visse molti anni in un lager sovietico perché dissidente».
Ma chi si aspetta le classiche dicotomie fumettistiche, che spesso hanno scalfito anche l’autorevolezza dei romanzieri engagé, troverà nell’ultimo premio Nobel una gradita sorpresa. «Di Bassure mi colpì la franchezza intellettuale. Non c’era nulla che l’autrice risparmiasse alla sua analisi impietosa. I suoi connazionali, e cioè i componenti della minoranza tedesca cui la stessa autrice apparteneva, non apparivano migliori degli altri. Appaiono chiusi anche loro, raggelati proprio come quei paesaggi in cui si faticava a scorgere un rivolo di vita. Il rigore con cui osserva ciò che le sta intorno, è accostabile a quello di Thomas Bernhard, che della società austriaca fu uno spietato critico», spiega Rondolino. «Il ruolo simbolico assunto dalla natura ha avuto una parte molto importante sin dai primi lavori della Müller –  argomenta Haas – Ma l’allusione non è in lei solo una semplice copertura adoperata per stornare gli sguardi più infidi dai suoi scritti, ma la cifra di un’autentica vocazione poetica, che continua ad accompagnare sempre la sua produzione».
«Non c’è mai niente di troppo esplicito nei suoi racconti – conferma Fabrizio Rondolino –, il lavoro da me tradotto a suo tempo, presentava spesso il punto di vista di una bambina che nella sua innocenza sa cogliere ciò che gli altri non sanno o non vogliono vedere. È un topos non infrequente nella letteratura europea, quella di affidare allo sguardo dei più piccoli vicende atroci altrimenti inenarrabili con la stessa efficacia. In questo senso, la Müller può essere accostata ad Agota Kristof e alla sua Trilogia della città di K». Nel tentativo di tracciare alcune coordinate spazio-temporali, si può dunque considerare la scrittrice tedesca, come ideale consanguinea di “autori di confine”, segnati da esperienze traumatiche ma incapaci di chinare la testa e riporre la penna in un cassetto per quieto vivere. «La Müller può essere raffrontata per certi versi a un altro premio Nobel come Imre Kertész, che raccontò la sua esperienza nei campi di sterminio nazisti in Essere senza destino. Nei romanzi della tedesca c’è la stessa sensazione di barbarie, di gigantesco arbitrio che umilia l’individuo», spiega il professor Haas.
Man mano che l’universo letterario della scrittrice ribelle si delinea di fronte a noi, la domanda delle domande monta, ed esplode. Perché Herta Müller gode di una notorietà assai ridotta in Italia?
«La sua è una scrittura difficile. Si avvale di una lingua complessa e irta di simbolismi, che spesso si annida in una semplicità apparente. C’è una dimensione allusiva, nelle sue opere, che non ne fa certo un’autrice di intrattenimento. Inoltre va poi considerato che i riferimenti culturali della Müller, e cioé la Romania di Ceaucescu, hanno scoraggiato la diffusione delle sue opere nella Penisola», rileva Franz Haas. «Nei suoi romanzi non si aggirano certo personaggi scanzonati – nota Rondolino – Ha una scrittura molto densa, e allo stesso tempo spoglia, ripulita da ogni orpello. Chi cerca letteratura consolatoria, deve bussare altrove». Desolazione, nudità, rigore. Quando i critici si soffermano su termini simili, c’è un doppio timore. Che un romanzo  possa annoiare da morire, o far piangere a dirotto. «Leggere la Müller significa avvertire forti scosse, emozioni potenti perché mai inficiate dall’artificio», assicura Rondolino. «Herta scrive spesso in prosa, ma in ogni sua riga implode, potente perché mai esibita, la poesia», conclude Haas.

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