mercoledì 25 novembre 2009

Il cinema, l'Europa, la guerra e l'amore. A tu per tu con un maestro della settima arte: Krzysztof Zanussi

Da Liberal 25 novembre 2009


«Il cinema oggi non è più una semplice arte perché nel corso degli anni ha inglobato passioni, popoli e momenti storici. È diventato un mezzo di comunicazione universale che supera confini e identità ristrette e perciò riveste un’importante missione. Contro quanti gettano discredito sull’umanità, ne ridicolizzano le passioni e le intenzioni più nobili, ne riducono le pulsioni a puri istinti meccanici privi di senso, il cinema può e deve restituire fiducia nell’uomo. L’essere umano non è un rifiuto, e all’arte spetta il difficile compito di ridare ai giovani i propri sogni, la voglia di crescere, l’entusiasmo di potere costruire la propria libertà ogni giorno. In una parola, la speranza». Maestro di cinema, e ambasciatore di Solidarnosc nei tempi bui della repressione, Krzysztof Zanussi ha coniugato l’impegno civile e la lotta per la libertà, alla fattura di pellicole sublimi come Constans e Illuminazione, in cui angoscia e speranza, vissute prima ancora nella vita che nell’arte, trovano una efficace sintesi nell’inesausto desiderio di senso. Una vita, quella del regista polacco nato a Varsavia nel 1939, in cui è impossibile scindere l’arte dalla biografia. Che solo lui poteva raccontare, nel bel libro, "Tempo di morire", uscito in questi giorni per Spirali.

Maestro, da che cosa nasce l’esigenza di raccontarsi in questo libro?

Mi piaceva l’idea di riflettere sulla mia vita, ma senza l’assillo e l’innaturalezza che ha nella nostra memoria l’ordine cronologico. Si parla delle mie avventure nel cinema, della mia vita privata, dei personaggi più significativi che ho incontrato. Uomini politici, incontri, viaggi, suggestioni e idee che hanno ispirato le mie sceneggiature. E poi l’esperienza che mi ha portato a realizzare Da un paese lontano, la storia di Karol Wojtyla.

Si intitola “Tempo di morire”.

Rassicuro tutti sulla mia salute. Il titolo prescelto sintetizza un cambiamento. Chiuso un certo periodo della nostra vita, come dice San Paolo, bisogna morire, lasciare da parte il vecchio uomo che c’è in noi, per lasciare che ne nasca uno nuovo. Un uomo finalmente libero. Ho vissuto insieme ad altre persone un lungo periodo di dittatura, che se non è stato proprio di schiavitù, di certo ha pesantemente limitato la nostra libertà. Avevo bisogno di chiudere definitivamente quel capitolo della mia vita.

Di recente ha incontrato il papa in occasione del decennale della “Lettera agli artisti” scritta da Karol Wojtyla. È ancora attuale?

Lo è ancora come sempre sarà attuale la bellezza. Spesso dimentichiamo che essa è un bene comune. E che talvolta l’artista si trova osteggiato da chi questo bene lo amministra male, o lo spreca. Allo stesso tempo, l’artista deve essere mosso dalla voglia di preservare i veri valori del mondo, ma se le sue opere sono animate solo da spirito distruttivo, le sue creazioni non sono più aggressive, ma trasgressive.

Lei ha affrontato in prima persona le battaglie di Solidarnosc. Che idea si è fatta della libertà?

Abbiamo conquistato la libertà in seguito a una grande lotta, ma ci siamo resi conto che la libertà non è un valore assoluto. È un mezzo che guida lo sviluppo dell’uomo. Non è cioè un valore oggettivo, ma qualcosa che ha a che fare con le migliori condizioni possibili perché l’individuo prosperi. Questa crescita, non solo materiale ma anche spirituale, rappresenta per me un bene ultimo. La libertà non è che la condizione per essere liberi, ossia la premessa per realizzarla.

Com’era la vita di un artista sotto il regime comunista?

Abbiamo rischiato la persecuzione e la violenza fisica, molti le hanno subite entrambe. La libertà di espressione veniva a volte punita con periodi di carcerazione, e sotto lo stalinismo si pagava anche con la morte. Era un grande rischio diffondere le nostre idee, ma attorno a noi sentivamo il supporto della gente, e quindi ci sentivamo, più che intellettuali autoreferenziali, portavoce della gente e dei loro bisogni. Era un processo di continuo scambio, che ci infondeva coraggio.

Che ruolo ha avuto la Chiesa, nella vostra rivolta?

Per la gente, sentire un intellettuale gridare a voce alta il dissenso era liberatorio, e allo stesso tempo tutti gli artisti che correvano dei rischi, ricevevano dal popolo un enorme sostegno emotivo. La Chiesa è stata in Polonia il terreno comune in cui sono fermentati i sentimenti di tutti. Non a caso i cattolici hanno pagato un prezzo molto alto. Il cardinale Stefan Wyszyski, come sappiamo, fu incarcerato perché nominava la parola “libertà”.

Eppure, in uno dei suoi recenti film,”Persona non grata”, si avverte la sensazione che l’originaria ispirazione del movimento sia stata tradita.

Come è tipico dei grandi momenti storici, spesso si passa da uno stato di grande esaltazione, in cui tutta la società sogna di essere migliore, a uno stato di realtà. La marea si abbassa, lo spirito umano perde slancio e ci si accorge di non essere così belli e buoni come si era stati nel periodo della lotta. È capitato anche a noi di Solidarnosc. I nostri primi governi furono poco attenti alla professionalità e molto ispirati dagli ideali. Poi pian piano, come in altri Paesi d’Europa, l’uomo pubblico a cominciato a discendere la china.

Ci spieghi meglio.

Sono rimasti in pochi, i vecchi idealisti di allora. La maggior parte della classe dirigente si è resa complice di un disegno che ha messo al centro la corruzione e i compromessi. Ciò che è rimasto dei tempi della battaglia è la sete di purezza e di libertà interiore. Il protagonista di Persona non grata è uno di quelli che non vuole cedere il passo alle nuove regole, e difende orgogliosamente i suoi principi.

Nel suo “Constans“, che è di trent’anni fa, c’è già tutto di questa crisi economica.

È un film che riflette sul conflitto tra la mediocrità della quotidianità e gli ideali. Nel mio Paese, e più in generale in tutta l’Europa post-comunista, si è fortemente radicato il desiderio di vivere un’esistenza più pulita, più onesta. Io ho cercato di trasferire questo sentimento nel personaggio del mio film. Mi sono accorto che, affrontando temi come la corruzione, la truffa, la menzogna era molto attuale. Perciò l’ho rivisitato, montandolo insieme a pezzi del film originale

Nel libro si parla di un suo caro amico: Karol Wojtyla. Ci spiega il segreto di un uomo amato come nessun altro nella storia?

Il suo segreto era tutto nel suo profilo armonioso. Era un uomo di azione e un uomo di contemplazione, un uomo attivo ma anche un uomo della preghiera, un intellettuale ma anche un operaio, uno che conosceva e parlava il linguaggio comune come il lessico degli intellettuali. Era un artista, un accademico, ma anche un uomo che conosceva la fatica ed era stato tra la gente. Wojtyla è un unicum, perché il suo carattere fu formato da una biografia irripetibile.

In molti suoi film, come “Il sole nero”, si parla di amore travagliato. È nel dolore, che questo sentimento si mostra in tutta la sua potenza?

L’amore è un sentimento in estinzione, nella nostra società. Molti cambiamenti nel costume, lo sviluppo di nuove e temibili patologie, gli eccessi di scopo dei ritrovati anticoncezionali, hanno separato i nostri istinti, congelato i nostri ormoni, ci ha allontanati da sentimenti alti e stratificati, raggiungibili solo se si dà alla natura lo spazio e il tempo di farci crescere. Anche nell’arte, l’amore ha ormai poco spazio. Si assiste piuttosto a continui tentativi che dimostrano come amare sia impossibile, che l’amore sia fatto solo di egoismi e istinti violenti che mimano le passioni. Ma il grande amore è sparito anche dalla cultura popolare, quella che ha prodotto capolavori come Romeo e Giulietta, per intenderci.

Augustin, giovane matematico di ”Imperativo” si interroga su Dio e finisce in una clinica psichiatrica. La psicoanalisi ha finito per medicalizzare ogni aspetto della ricerca interiore umana, visto che talune branche della stessa, sempre più simili a sette, additano come malati di mente quanti coltivano sentimenti religiosi?

Alcune aree della psicoanalisi hanno appiattito l’uomo a una materialità greve, che spesso incardina le credenze religiose dentro disturbi patologici. L’istinto religioso appartiene invece all’uomo, che non può essere ridotto a pura materia da scomporre e ricomporre.

Lei ha viaggiato molto. Esiste il sentimento di Europa, o è solo un castello di carte?

L’Europa non ha ancora finito di fare i conti con se stessa e con i fatti più sanguinosi che ne hanno macchiato la storia, specie quella del Novecento. Vecchi revanscismi restano in piedi, e pronti a saltare fuori ogni qualvolta si apre una disputa intorno a questioni di approvigionamento energetico o quant’altro. Nei Paesi che hanno vissuto il giogo stalinista, non si è mai aperta una vera riflessione su quei tempi, così come in Germania il nazismo è stato più relegato in soffitta, che digerito. E lo stesso è accaduto per il fascismo, con il quale ci si è misurati con approssimazione e superficialità. Ci sono ancora troppi scheletri lasciati dentro gli armadi, e il fatto di non avere la coscienza pulita impedisce a tutti di guardare con fiducia ed entusiasmo al futuro.

E dell’Italia attuale, che gliene sembra?

Ho l’impressione che il Paese si sia imbarcato in una lunga transizione. Mi pare domini una certa confusione e una serie di segnali contrastanti, che impediscono di capire bene dove la transizione possa approdare.

Insieme a Kieslowski, polacco anche lui, lei è uno dei registi che più si è interrogato sulla spiritualità.

È sempre stato un mio amico intimo. Ma al di là di questo, è difficile tracciare l’origine di questa vicinanza spirituale, per così dire. Si tratta credo di un imperativo, di una certa angoscia esistenziale suscitata in noi dalla violenza del comunismo e dagli orrori della guerra. Siamo stati uomini appesi a un filo, in preda a una precarietà che ci ha sospinti verso la ricerca di un bandolo a cui far risalire quel filo.

Lei insegna in giro per l’Europa. Che idea si è fatta dei giovani di oggi?

Ciò che mi dà maggiore soddisfazione è incontrare i giovani che con il cinema non hanno a che fare in senso professionale. Oggi insegnare cinema non è più qualcosa che ha a che fare con l’accademia, perché il linguaggio cinematografico si è talmente radicato ed esteso da essere multidisciplinare. Da essere diventato cioè una sorgente di riflessione e dibattito sui temi del presente, del passato, e del futuro. E i giovani di oggi, hanno tanta voglia di futuro, e tanta paura. (f.l.d)

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