giovedì 3 settembre 2009

«Il giornalismo è come Cosa Nostra. Una guerra tra clan mafiosi». Tutte le verità di Piero Ostellino


«Gli ultimi velenosi refoli che la stampa italiana ha sversato nell'aria putrida di questo Paese, testimoniano di una professione giornalistica ormai degenere, ridotta a rango caricaturale e deforme. Assistiamo a un ininterrotto fiorire di mestieranti sempre più foggiati alla stregua di furbastri robivecchi, di impudichi mestatori che si acquattano nelle privatezza altrui per sferrare vili agguati nell'intimità del tinello domestico. La ricerca dei fatti ha ceduto il passo a strategie di intelligence promanate ai piani alti da colonnelli rotti a ogni vizio di forma e di prassi. Èd è accaduto pertanto che i giornalisti si siano adunati in battaglioni di lanzichenecchi pronti a raccogliere spiccioli onori laddove seminano infamie, delazioni e calunnie». L'analisi di Piero Ostellino, editorialista del Corriere della sera e decano della carta stampata, è impietosa. Il giornalismo di questo Paese è marcio.

Quali sono le ragioni che hanno trasformato questa professione in un ricettacolo di brutture?

Il nostro giornalismo soffre di mali difficilmente curabili contratti nel corso degli anni direttamente a contatto con una realtà insana. Alla radice di queste affezioni covano virus ormai onnipresenti in tutte le testate giornalistiche, che pure dovrebbero essere in un Paese civile il vaccino contro la faciloneria più sciatta, il pensiero volgare e accattone e i riduzionismi da bar. Mi riferisco a un approccio verso la realtà infarcito di falso moralismo, di una precettistica improntata all'opportunismo, di un imbarazzante doppiopesismo. Quello del giornalista odierno è uno sguardo intorbidato di volta in volta da velami ideologici e smanie predatorie, da ansie giacobine o pilatesche semplificazioni. Si banalizza ciò che oltraggia la propria fazione e si ingigantisce ciò che umilia quella avversa. C'è una totale perdita di misura e una sempre più cafonesca ingerenza in ogni branca e disciplina che interroga la vita pubblica. Ci si erge di volta in volta a censori, a proclamatori di stati d'assedio, a magistrati ed episcopi. Ci si assiepa sui banchi della attualità credendo di sedere dalla parte della ragione. E accade così che da quella del torto i posti siano sempre liberi. Perché neppure di fronte a sviste sesquipedali, il giornalista di oggi arretra o si cosparge il capo di cenere.

Come si è arrivati a un simile panorama?

Nel corso di questi ultimi quindici anni, contrassegnati da un feroce bipolarismo, la percezione della professione giornalistica è diventata una questione di gusto. Una scelta estetica, se non edonistica, che ha sganciato l'uso della parola scritta da criteri deontologici essenziali come la verifica della fonte e la competenza. Oggi domina su tutto l' “illetteratezza”, la bulimia acritica che premia l'assaltatore più rude, l'implacabile fame di pettegolezzi e vendette private. Si elargiscono ormai format di scrittura precofezionati, tagliati su misura per un pubblico vorace che trova nella carta stampata l'ideale prosecuzione del serial televisivo ad hoc per il suo palato. Tutto questo a discapito dell'onestà intellettuale, sempre più difficile da chiamare in causa vista la madornale incultura che governa le menti della maggior parte dei giornalisti italiani.

Possibile che il peggio dell'incultura italica sia approdata in luoghi come le redazioni, deputate in teoria a diffondere cultura?

Non mancano intelligenze vive o riconosciute competenze nei giornali. Il problema è però che vengono sovrastate da oberanti ragioni corporative. Si rinuncia spesso alla vaglio critico a favore di un familismo amorale. La grandi famiglie giornalistiche, che fungono da dogana per chi vuole intraprendere la professione, obbediscono a logiche di stampo mafioso incentrate su lealtà o tradimento, scambio di favori o logoranti guerre di quartiere. Coordinate comportamentali che, specie dopo la caduta delle impalcature ideologiche di vecchio conio, hanno definitivamente sottratto la deontologia della professione a ogni rigore. Persino a quello ideologico, che pure assicurava coerenza e in qualche caso persino varietà di posizioni all'interno di uno stesso blocco.

Poco prima parlava di ingerenze e sconfinamenti. Si riferiva al Diritto per caso?

Mi sembra evidente che da anni la militarizzazione della professione abbia prodotto un inaccettabile assalto alle leggi che presiedono alla vita di questo Paese. Chiunque si arroga ormai la pretesa di fare processi, emettere sentenze e lanciarsi in filippiche a priori, prima che i tribunali si pronuncino, oppure a posteriori, nell'idea di riaffermare la verità nonostante chi è chiamato a stabilirla si sia pronunciato. E c'è poi il caso di giuristi contaminati dalle logiche giornalistiche. Non ultimi i tre di Repubblica, che hanno sottoscritto un appello contro la querela sporta del premier. Sono i giudici a stabilire la fondatezza di una querela, e fino a quel momento non esiste nient'altro che il diritto a sporgerla nei confronti di chicchessia.

A proposito di vicende scottanti, che cosa ne pensa del trattamento riservato a Dino Boffo?

Penso che ormai si scrive sui giornali quello che si vocifera nei bar, che si scagliano pietre su ordinazione e senza le necessarie cautele che regolano la professione. E che si fa strame della vita privata a colpi di dossier e informative, tramite strani giri e traffici di notizie. Nel caso specifico, anche se riconosco a Feltri una certa statura giornalistica e una certa professionalità, devo dire che il direttore del Giornale ha sbagliato.

Colleghi che sbagliano, è questo il senso?

No. C'è una verità più profonda che induce in errore anche chi è cresciuto secondo i valori più nobili di questa professione. C'è un terribile deficit di cultura liberale in questo Paese. Una matrice di pensiero che il centrodestra sorto intorno a Silvio Berlusconi ha sempre propugnato a parole, e mai compiuto nei fatti. È per questa ragione che, lungi dall'essere distanti, vita pubblica e privata non hanno alcuna regolamentare separatezza, ma tarlano l'opinione pubblica e vellicano nell'intimo l'italiano tenacemente appassionato alla sprezzatura da bar e alla sapida maldicenza. E così, alla faccia della sbandierata rivoluzione liberale, gli uomini si dividono in Italia in due alte categorie concettuali: gli amici e i nemici. Quelli di cui parlava Carl Schmitt alcuni anni orsono. (f.l.d)

Da Liberal 2 settembre 2009



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