martedì 30 giugno 2009

Intervista a Rita Clementi «Io "giovane precaria" di 47 anni lascio l'Italia perché umilia chi studia, e offende la dignità di chi lavora.


«Poco tempo fa il più piccolo dei miei tre figli si è fatto serio in volto e mi ha spiegato di avere preso una decisione. 'Mamma – mi ha detto –, ho capito che devo fare una scuola facile, perché se ne scelgo una difficile poi succede che da grande vado a finire come te'. Capisce perché il primo di luglio salirò su quell'aereo? Non posso permettere che i miei ragazzi crescano in un Paese che a molti non concede neppure la speranza di vedere premiati i propri sacrifici, e che nella maggior parte dei casi ignora il merito e tiene in un limbo esistenziale i cosiddetti giovani precari, che nel mio caso hanno ad esempio quarantasette anni, un certo numero di risultati dalla propria e neppure un euro di contributi per la pensione». Le parole di Rita Clementi, una laurea in Medicina, due specializzazioni, e un mucchio di contratti a termine di cui l'ultimo presso l’Istituto di genetica dell’Università di Pavia, spiegano bene i sentimenti che l'hanno spinta a scrivere ieri al Corriere una lettera d'addio all'Italia indirizzata al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. «Vado via con rabbia, con la sensazione che la mia abnegazione e la mia dedizione non siano servite a nulla. Vado via con l’intento di chiedere la cittadinanza dello Stato che vorrà ospitarmi, rinunciando ad essere italiana», scrive in un passaggio dell'epistola la ricercatrice. Rabbia condivisibile. Perché a Rita, simbolo di altre migliaia di donne e uomini che subiscono sulla propria pelle gli effetti della precarietà, il quasi sistematico disconoscimento del merito a favore del lignaggio vigente nei feudi universitari, e la catastrofica situazione della ricerca italiana che fa miracoli con i fichi (sempre più) secchi, non è bastata neppure un'importante e promettente scoperta. Ha individuato l’origine genetica di alcune forme di linfoma maligno, ma la cosa è stata accolta con tiepidezza in Italia e con vivo interesse negli Stati Uniti. E così, il primo di luglio si recherà a Boston, dove avrà finalmente la possibilità di continuare il suo lavoro, e quella di potere crescere i propri figli in un luogo che rispetti la sua dignità di professionista, e di madre.

Dottoressa, nelle sue parole c'è tutta l'amarezza di una resa. Che ricordi porterà con sé dell'Italia?

Magari si fosse trattato di una resa. Quando uno si arrende vuol dire che ha avuto la possibilità di condurre una battaglia. A me, come a centinaia di colleghi, non è stato neppure concesso di lottare. La mia è stata più che altro una storia di resistenza fatta di bocconi amari inghiottiti a forza. Storture, compromessi, taciti ricatti. Ho pazientato per anni e subito l'onere della mia fragilità contrattuale. Purtroppo, come ho detto nella mia lettera, la benevolenza dei propri referenti è in Italia una variabile indipendente dalla qualità del lavoro. Me ne vado perciò con il peso di dovere lasciare il Paese in cui sono nata e cresciuta. Di dovere lasciare un sistema in cui per molti non esiste la libertà di fare ricerca, né quella di poterla sviluppare. Un'Italia in cui chi fa il mio mestiere, e magari dimostra di saperlo fare bene, dovrebbe stare sul proprio banco di ricerca a lavorare, invece che scrivere ai giornali.

Ha voluto rivolgersi alla stampa. Con quali speranze?

L'ho fatto perché prima di partire mi sembrava doveroso lasciare una testimonianza diretta a favore di centinaia di colleghi che subiscono da anni situazioni simili alla mia. So bene che una lettera su un giornale non serve a nulla e non può cambiare le cose. So che io e miei figli ci adatteremo prima o poi alla nuova vita che ci aspetta. Però non mi preoccupo tanto per me, quanto per il nostro Paese. Finché lo stato della ricerca resterà quello attuale, l'Italia si priverà di ingegni e risorse essenziali nelle sfide che la scienza pone verso il nostro futuro. Io ad esempio sono un medico, e credo nel mio lavoro sui linfomi. Alcune indicazioni emerse dai miei studi, dicono che esiste la probabilità di salvare delle vite umane. Questa stessa possibilità mi ha trasmesso la ferma volontà di provare a tutti i costi ad andare fino in fondo. Non è solo per crescere i miei figli, che me ne vado. Vado via perché spero un giorno di far crescere meglio i figli degli altri, grazie alla mia scoperta.

Dovesse farla capire a un bambino, come gliela spiegherebbe?

Gli direi che ho studiato per qualche tempo una malattia genetica rara, che colpisce quattro o cinque persone l'anno. E che quando questa malattia inizia a svilupparsi, è molto simile a una brutta malattia che si chiama linfoma. Una brutta malattia che secondo i miei studi, dipende dalla mancanza di un gene. E che perciò, con il tempo, può essere evitata grazie al lavoro di alcuni dottori speciali: i ricercatori.

Speciali all'estero. E particolari in Italia, per usare l'aggettivo più elegante che viene in mente rispetto alla loro sistematica umiliazione.

Qui da noi università e ricerca sono da molti anni abbandonati a una drammatica deriva. Si salva chi può, e soprattutto chi deve. Si dimentica che il favore reso al singolo è spesso un immenso torto reso a una comunità intera. Che non perde solo questo o quel ricercatore, ma i frutti del suo lavoro e i benefici enormi che la ricerca può garantire a un Paese intero e al suo avvenire.

Perché non si è scelta una “scuola più facile”?

Durante gli anni di università, la passione era speranza e la speranza era passione. Due cose che si alimentavano a vicenda e mi facevano pensare solo a studiare al meglio, perché poi i risultati sarebbero venuti. I miei genitori hanno fatto enormi sacrifici per mantenermi agli studi. Loro hanno creduto in me quanto io ho creduto in me stessa. Con il tempo inevec è rimasta intatta la passione e la speranza si è trasformata in ostinazione. E se una persona diventa ostinata significa forse che ha smesso di sognare, ma che non è disposta ad arrendersi. E che vuole combattere in qualunque posto del mondo le sia data anche solo la possibilità di farlo.

Da Liberal 30 giugno 2009

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