mercoledì 15 aprile 2009

Ma il terremoto in Abruzzo è colpa di Dio o colpa dell'uomo? Teologi e filosofi a confronto si interrogano su una tragedia


Insieme a un’onda d’urto imprevedibile, cieca e sorda, che ha squarciato la terra d’Abruzzo, hanno vacillato in questi giorni in milioni di italiani, le certezze più spicciole e quelle più incommensurabili. La terra che abitiamo, i vicoli e i crocicchi e i monumenti, che prima di tutto vivono nella mente, si sgretolano e trascinano via amici, sogni e abitudini in un buio pesto che ci lascia atterriti. Se la terra si squarcia, e centinaia di persone ci spariscono dentro, si spalanca un baratro anche per chi resta. «La terra – spiega Gianni Baget Bozzo, noto intellettuale e una delle voci del cattolicesimo italiano – questa terra che tutti pensiamo di avere sotto i piedi, qualche volta si ritira e inghiotte l’uomo, lo trascina via con una foga incontrollabile e apre crepacci, lunghi e profondi, dentro di lui. L’uomo sa da sempre che la terra che calpesta è imperfetta, perché Dio, nel creare il mondo, l’ha portato fuori di sé. Pensare alla morte tra le macerie e il dolore fa terrore, ma ci sono due cose che chi resta impara nella tragedia: che la natura è più potente dell’uomo, perché la natura è libera. E che, nonostante tutto, essa ha scelto l’uomo perché abitasse questa libertà». Ci si è fatti molte domande in questi giorni terribili, e anche l’arcivescovo di Firenze, monsignor Giuseppe Betori, ha detto che di fronte a una tragedia così immane, domandare a Dio «perché», è lecito. «Di fronte all’orrore – commenta don Bozzo – l’uomo vacilla e grida il suo dolore come un animale ferito. Ma dal fondo del pianto, tra cumuli di rovine, l’uomo può trovare la Croce. Perché la grande croce caduta sull’Abruzzo, è la Croce di Dio». «Le cose accadono in modo inevitabile perché è lo stesso accadere a sgombrare il campo da tutto ciò che era possibile – argomenta Emanuele Severino, filosofo tra i più influenti del panorama internazionale –, e allo stesso tempo l’inevitabilità è il rovescio della medaglia che consente il superamento del dolore provocato dalla morte. Il terremoto, come altre tragedie che hanno attraversato la storia dell’umanità, è il polo negativo dell’essere, quello che i greci chiamavano amartìa, nella doppia accezione di peccato, ma anche di errore. E l’orrore è il negativo assoluto, qualcosa di terribile e di insostituibile al contempo. Perché senza l’orrore, non potrebbero esistere la gioia, la verità e la giustizia. Elementi di un polo positivo, che l’uomo non potrebbe riconoscere se non esistessero gli opposti». Colpa di un’entità assoluta che ha lasciato accadere tutto senza opporsi, colpa dell’uomo che ha piantato le sue radici laddove sapeva che un giorno avrebbe potuto sparire, l’arroganza dell’uomo enciclopedico capace di prevedere ogni cosa, il culto viscerale per la tecnocrazia, la rabbia contro qualcuno o contro qualcosa che non si può riconoscere se non come ignoto. Si agitano in queste ore di cordoglio nell’intimo di ciascuno, spettri antichi come il tempo, che ci riabbracciano uomini del terzo millennio. Una lotta di fantasmi, in cui l’uomo sembra staccarsi da terra, e riscoprirsi fragile.
«Farsi domande in questi momenti, non solo è lecito ma anzi doveroso – osserva Sebastiano Maffettone, filosofo e docente alla New York University e ad Harvard – ma cercare risposte radicali è sbagliato, perché il mistero del dolore ci porta oltre il campo del definito. Oltre di esso non c’è che una selva in cui domande e risposte si intrecciano in nodi inesplicabili. Esistono in quell’oltre solo frammenti e schegge, perché laggiù si sbriciolano tutte le pietre angolari. E scaricare le colpe di un disastro sull’uomo o su volontà inconoscibili, non risolve affatto l’inesausta ricerca della verità. La verità ci trascende, e dunque noi uomini non possiamo far altro che accogliere in noi un liberalismo minimo. Scendere su un piano empirico, e rispettare le ragioni e le credenze di ciascuno. Oltre il mistero, non può che esserci speranza e paura, conforto e sconforto. E in questa pluralità, l’uomo riscopre se stesso. Uomo tra uomini».

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