venerdì 17 aprile 2009

Gruppo di guerriglia in un interno. Il Sol dell'Avvenire, le br e il cotechino


L’interminabile cena a base di cappelletti, cotechino, faraona e nostalgia brigatista, offerta ad Alberto Franceschini, Tonino Loris Paroli e Roberto Ognibene ne Il Sol dell’Avvenire di Gianfranco Pannone, è costata allo Stato italiano 250mila euro e una goffa retromarcia in salsa maccartista. Riunire alla stessa tavola del ristorante di Costaferrata il trio che nel 1970 diede vita e braccia alle Brigate rosse, era un’occasione imperdibile per andare alla ricerca delle origini di quello che lo stesso regista e Giovanni Fasanella, autore del libro cui (non) si ispira la pellicola, definiscono un «fenomeno rimosso». Bello spunto di partenza, che la visione del film nella semi clandestinità dell’Apollo 11 di Roma, tramuta però in un clamoroso autogol. E in un assist al ministro Bondi. Perché l’unica cosa che non viene mai rimossa per tutti i 78 minuti del film, è l’idea di assistere a una grande abbuffata, durante la quale tre allegri criminali si divertono ad affettare culatelli e ingurgitare sangiovese sincero, in mezzo a frizzi e lazzi come quello, elegante, che si sente a un certo punto nel film: «Dicevo a tutti che facevo il designer. E infatti disegnavo crimini». Da brigatisti terribili ad allegra brigata, da rivoluzionari efferati ad amici del bar Margherita, in mezzo scorre il fiume. Un fiume di sangue in cui nessuno di loro sembra volersi bagnare la seconda volta, e di cui nessuno di loro rende conto per tutta la durata del film. Dove la nostalgia canaglia, cede il passo alla nostalgia canagliesca. Il ministro Sandro Bondi, ha torto nel metodo ma ragione nel merito: non solo offensivo per le vittime, Il Sol dell’Avvenire dice poco a chi conosce già la storia delle Br, tantissimo ad alcuni come quelli, presenti in sala, che ridacchiano per lo humour sanguigno dei commensali ed elogiano trasognati la superiorità etica delle stragi ideologiche, e qualcosa di mostruoso a tutti i giovani che della lotta armata non sanno niente. «Il film dev’essere proiettato nelle scuole», dice Fasanella facendo venire anche a noi la voglia di un frizzantino per stemperare l’atmosfera. Stavolta Pannone, altrove capace di affondare lo sguardo con equilibrio e rigore (vedi Latina/Littoria), sembra essersi lasciato scappare di mano la macchina da presa. Come sopraffatto o affascinato dai corpi vivi di quella realtà che intendeva documentare, concede alle azioni delittuose delle Br solo una rapida carrellata di foto d’epoca, e non una parola alle vittime del terrorismo che a vario titolo sono state colpite dai suoi attori protagonisti. Certo si potrebbe obiettare che la realtà non può essere aizzata o manipolata, ma solo raccontata. Che se i brigatisti non avevano nessuna voglia di rivangare il passato, non è colpa del film. Di sicuro però, regalare a Franz e soci un pranzo, e renderli attori protagonisti di un reality show in stile Il ristorante, è davvero agghiacciante. «Noi non siamo stati terroristi, terrorismo era piazza Fontana», dice Tonino Loris Paroli. E nessuno contesta. Nessuno sembra ricordare rapimento e sequestro del giudice Mario Sossi, sequestrato a Genova il 18 aprile 1974 e rilasciato a Milano il 23 maggio dello stesso anno. Nessuno fa un accenno al 17 giugno del 1974, quando le Br assassinarono Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola nella sede del Msi. Nessuno sembra sapere che l’amico Franz pasteggia a cotechini dopo una condanna a sessant’anni di carcere per costituzione di banda armata, sequestro, oltraggio e rivolta carceraria. Solo qualche didascalia generica nel prologo, e niente di organico al gruppo di guerriglia in un interno allestito per l’occasione. Fasanella e Pannone sembrano più interessati a collocare l’esperienza de L’appartamento, il gruppo di Reggio alla base delle Br, all’interno della vittoria mutilata della Resistenza. «La rivincita dei figli dei partigiani che credevano ancora in un sogno», ammonisce Valerio Morucci, che dopo aver partecipato all’agguato di via Fani e al sequestro Moro, ha partecipato l’altra sera anche al film. E proprio da Morucci viene la critica più fondata: «C’è troppo lessico familiare in questo film, e il lessico familiare si usa solo quando si raccontano vicende private. E queste non lo sono». Il frizzantino di Paroli «che oscurava persino il ricordo di Lenin», quarant’anni dopo sembra essersi annacquato, perché il bolscevico, che definiva l’estremismo la malattia infantile del comunismo, spesso troneggia nel film dalla piazza di Cavriago. Le Brigate rosse sono un prodotto del comunismo, giusto. Ma se la verità non è sempre rivoluzionaria (vedi negazionisti), il culatello mai.

Nessun commento:

Posta un commento