venerdì 3 aprile 2009

Il Maestro e Margherita. Intervista a Pupi Avati, amico dei semplici al bar della memoria


«Siamo nel pieno degli anni Cinquanta e io, sedicenne, somiglio nella sfrontatezza delle mie aspettative a quell’Italia in cui nessuno si prende la briga di richiamarmi alla ragionevolezza. Ho l’età dei miei sogni che è l’età della città in cui vivo e della sua gente.
Tutti insieme condividiamo le stesse attese nei riguardi di uno sconfinato futuro». Dietro la barba folta e il cipiglio antico, Pupi Avati nasconde un inesausto stupore. Qualcosa che balugina nella voce incrinata, e somiglia a un’ipotesi di leggenda. All’idea di fare cinema per svelarla. Nelle sale arriva oggi Gli amici del Bar Margherita, opus numero 40 di una carriera straordinaria. Cantore degli umili, amico dei semplici, il regista emiliano racconta ancora una volta quel piccolo mondo antico che è stato la provincia italiana: vestale del nostro passato, e presenza fantasmatica del nostro presente.
Perché ha scelto di raccontare gli amici del bar Margherita?
Avevo sedici anni quando osservavo il bar Margherita. Era il 1954 e allora, dalla finestra di casa mia, guardavo con ammirazione tutti coloro che erano ammessi in quel luogo. A distanza di più di 50 anni, e di 370 chilometri, è diventato per me un simbolo. È per me il ricordo dell’Italia del dopoguerra, luogo fisico e luogo dello spirito insieme, in cui la cultura si declinava al maschile.
Com’erano viste le donne?
Le figure femminili erano immerse nei nostri discorsi in un alone di diffidenza, e le logiche di gruppo non facevano che addensarne il mistero. La donna era motivo di fascinazione e di turbamento. Le risate, le battute, i racconti avventurosi, non facevano che nascondere la paura, e sciogliere nella risata i nodi di questo gioioso tormento, l’amore e le donne, che ci univa tutti.
Tra i personaggi del film, ha detto di identificarsi nel giovane Taddeo, detto “Coso”.
In lui mi riconosco del tutto. Anch’io, da ragazzo, facevo fatica a farmi notare. E anche lui, come molti giovani di allora, non contava nulla. L’approvazione o la disapprovazione, giungevano per noi dal tavolino di un bar, da un occhio rugoso che ci scrutava, da una smorfia che ci irrideva dietro un bicchiere, o da un ciglio che si inarcava nel fumo di una sigaretta. Erano anni di distrazione, e di educazione sentimentale.
Dopo le bombe, voglia di evasione?
Naturalmente c’erano anche allora giovani che avevano scelto di investire nell’impegno, nella lotta, nella politica. Ma di certo posso dire che seduti sui gomiti ai tavolini del bar, tutti cercavamo la nostra voce, quella che non trovavamo seduti a tavola nelle nostre case. Senza pressioni, né aspettative di nessuno, i giovani erano liberi di cercare la propria storia perché erano liberi di sbagliare. Molto più di quelli di oggi, che invece sono al centro di un’enorme attenzione.
Davvero crede che lo siano?
Lo sono, ma solo in apparenza. A questo proposito credo infatti che le mie dichiarazioni siano state fraintese. Quando parlo di attenzione verso i giovani mi riferisco alla loro importanza prettamente mediatica, a quella strategica del marketing o della politica che nell’ansia di svecchiarsi cavalca spesso linguaggi e temi giovanili. Si ammicca e si sonda, il mondo dei giovani, ma in funzione di un target. Si viaggia nel loro universo come se si facesse una visita guidata: quello che si deve vedere è spesso stabilito in partenza.
È forse per questo che i ragazzi si aggregano ora nella baraonda della discoteca, oppure nel silenzio virtuale di una chat?
La “cultura del bar” che racconto nel mio film, permetteva ai ragazzi di solidarizzare senza avvertire troppo il peso della responsabilità. Allora, come dicevo, sentire di non contare nulla era normale per tutti. Era una regola del gioco, e la cosa si viveva spesso con gioia, come una libertà. Al contrario, i ragazzi di oggi hanno la sensazione di non contare nulla individualmente, e a volte sfogano quest’ansia in uno stare insieme, ma da soli, che spesso è tutto tranne che leggerezza. Le pressioni di oggi, l’avere obbedito a infiniti input tecnologici e rituali di massa, in cui si celebrano, a prescindere da meriti e valori, i vincenti, fa vivere loro l’idea di non contare con grande terrore.
E questo forse spiega perché nel nostro cinema sembrano marionette di un romanzetto teenageriale.
Non conosco abbastanza a fondo la produzione degli ultimi anni, ma mi sembra che in alcuni film in voga siano rappresentati come testimonial di prodotti, piuttosto che come testimoni della loro generazione. Semmai, se può incuriosirla, vorrei aggiungere qualcosa sul nostro cinema.
Curiosissimo, dica pure.
Ho notato che circa il 99 per cento dei film italiani ruota ossessivamente attorno al presente. Come a dire che il passato debba svaporare via perché è vecchio e inservibile. Proporne uno in costume equivale spesso in Italia a essere osservati, bene che vada, con aria compassionevole. «Le cose del passato non tirano», ci si sente dire. Il rischio c’è perché sono film complicati, costosi, e non attirano i giovani in sala, perché loro con il passato non vogliono avere niente a che fare. Un’obiezione ragionevole, se si guarda al botteghino, ma che in senso più filosofico è fasulla.
Ci spieghi.
Io resto convinto che raccontare ciò che è dietro di noi, e non fuori, serva a tirare meglio le fila della nostra storia, di quella che viviamo nel presente. E a ristabilire un rapporto equilibrato con la nostra percezione, e la nostra memoria.
Avverte qualche squilibrio, insomma.
Oggi esiste la sensazione diffusa che, da qualsiasi angolazione si guardino, le cose stanno regredendo. È innegabile che i mutamenti ci siano stati, e ce ne sono in corso, ma spesso c’è dietro una lente deformante che mitizza il passato e gli conferisce un’aura di mondo migliore. Il passato che racconto ne Gli amici del Bar Margherita è per esempio carico di nostalgia. Ma se in film come Jazz Band o Cinema!!! mi ero reso conto di aver dato vita ad affreschi troppo solari, in questa e altre pellicole c’è un carnet di piccole nefandezze: lo scherzo a Fabio De Luigi, un aspirante cantante che sogna Sanremo e se ne torna con le pive nel sacco. Oppure il matrimonio di un uomo ingenuo (Neri Marcorè, ndr) fatto saltare da un suo amico (Diego Abatantuono, ndr) grazie a una entreneuse (Laura Chiatti, ndr). E che dire del ragazzetto, mio alter-ego di quando avevo sedici anni, che chiude il nonno morto nella sua stanza per non perdere l’occasione di ballare con la ragazza che gli piace?
Ci dica che non è successo davvero.
No, non è successo davvero. Ma confesso che mi sarebbe potuto accadere. Di più: avrei fatto la stessa cosa. Fare film, molte volte, è far succedere quello che avremmo voluto accadesse. I miei racconti sono parte di una biografia immaginaria, vera e desiderata allo stesso tempo. E perciò avverata.
L’amicizia è stata larga parte della sua, sembra.
Lo è stata e lo è, come me per tutte le persone che la vivono nel presente. Quella che si respira al bar Margherita è amicizia vera, di quelle che spesso ne svelano i risvolti crudeli e beffardi. E il passato di questi amici, è simile al presente di tanti altri che possono riconoscerlo e dire: succede anche tra i miei amici!
Eppure, il Pupi Avati ragazzino, è un passo indietro dagli amici del bar.
Il ragazzino, proprio come me allora, è attratto da quel mondo ma non riesce a farne parte. E siccome vuol essere comunque un tassello di quel mosaico, se ne allontana per vederlo meglio, e raccontarlo.
Metafora della sua avventura di regista, emigrato a Roma da Bologna?
Esattamente. È solo da lontano che si può amare con maggiore lucidità il mondo che ci ha vestito e nutrito, raccolto e sfamato. Fra me e il mio, ho messo 370 chilometri di distanza, che nel tempo mi hanno portato a carezzarlo con più delicatezza. Solo da qui, posso guardare laggiù. Solo da qui posso confondere quello che è stato con quello che avrei voluto che fosse. In fondo nei film ho l’età dei miei sogni, l’età della città in cui vivo e della sua gente.

Da Liberal 3 aprile 2009

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