sabato 11 aprile 2009

David di Donatello, per il cinema italiano è arrivato il momento di fare giustizia a Gomorra


«Adda passa' 'a nuttata», esclamava Gennaro Iovine a chiosa di Napoli milionaria. E per l’altra Napoli, quella Gomorra di un romanzo che ha venduto tre milioni di copie, senza l’ardire di inzuccherarla da metri sopra il cielo, ma rimestandone il marciume, è arrivato finalmente il giorno. Lasciate alle spalle le paturnie della notte degli Oscar, che ha visto il film omonimo di Matteo Garrone escluso dalla corsa al miglior film straniero, a favore del vincente giapponese, Okuribito, che racconta le vicende di un violoncellista alle prese con un becchino e la depressione (sua e degli spettatori), la pellicola italiana di cui tutti parlano e nessuno premia, farà incetta di riconoscimenti. L’otto maggio, alla 53esima edizione dei David di Donatello, Gomorra di Matteo Garrone si presenterà con undici candidature. Persino poche, bisogna dire. Perché in Italia, il film del regista romano si era guadagnato finora il primo premio ai Nastri d’Argento, e la menzione speciale di qualche schizzinoso esegeta avvezzo a sciacquare i calzini nel buen retiro del proprio bidet. Candidato come miglior film, Gomorra dovrà vedersela con l’altro must della stagione, Il Divo di Paolo Sorrentino, in una corsa che forse non stabilisce soltanto qual è il miglior film della stagione, ma forse e soprattutto dell’ultimo decennio. E che comunque vada, segnerà per i cineasti italiani una nuova agenda: sollevare la pancia dal tinello di casa, buttarsi a peso morto dal ponte molle dei sospiri, e ricominciare a fare cinema dopo un sano schianto con la pietra viva. Pellicola sulfurea, fitta di vetriolo e di buio pesto, alla luce delle sedici candidature agguantate, Il Divo si fa preferire a Gomorra nell’assecondare la credulità narrativa, perché focalizza su storia e personaggio fondandosi su un plot tradizionale. Più eversivo, e terribilmente ascetico nel non concedere allo spettatore né una lacrima né un sorriso, il film di Garrone punta allo stomaco e non conosce pietà. E in questo non si fa preferire soltanto a Il Divo, ma alla maggior parte del cinema italiano del dopoguerra.
Detto dei due antagonisti principali, nella cinquina per il miglior film fanno capolino ai David di Donatello anche le commedie. Giusto non bistrattarle, ma una commedia che fa solo ridere non è una buona commedia. E difatti, delle tre iscritte in lizza,
Tutta la vita davanti di Paolo Virzì (escluso dalla nomination come miglior regista per ragioni imperscrutabili) ha di comico solo la tragica stupidità in cui è stata sospinta la gioventù contemporanea, costretta a cantare la gettonata canzonetta motivazionale del precariato, mentre porta la croce. Completano il lotto Si può fare di Giulio Manfredonia, che di divertente ha solo un grande Claudio Bisio, e di intelligente e amarognolo moltissimo, e gli Ex, girotondini dell’amore perduto, di Fausto Brizzi. Che insieme a Garrone, Sorrentino, Manfredonia e Pupi Avati (Il papà di Giovanna) si contendono la statuetta anche nella categoria riservata al migliore regista. E a proposito del film del regista bolognese, bisogna dire che se il papà di Giovanna, un sommesso Silvio Orlando, trova posto nell’agguerrita sfida per il migliore attore, sua figlia, l’intensa Alba Rohrwacher che l’anno scorso si aggiudicò il David come miglior attrice non protagonista in Giorni e Nuvole di Silvio Soldini, merita a mani basse la consacrazione come protagonista femminile nella cinquina di quest’anno.
Non sarà la ninfa oceanina che uno spera di incontrare al mare nei panni (pochi) di Laura Chiatti, ma la giovane attrice di
Mio fratello è figlio unico, possiede un campionario emotivo di prim’ordine. Dovrà vedersela con la solita Valeria Golino di Giulia non esce la sera, che non ha ormai bisogno di presentazioni né di altre lodi, l’ottima Donatella Finocchiaro di Galantuomini , con la Ilaria Occhini di Mar Nero e la Claudia Gerini di Diverso da chi?, che però nell’audace film di Umberto Carteni si conferma una macchina da guerra nei tempi comici, che scricchiola su quelli drammatici. Sempre dal gradevole film di Carteni, arriva la candidatura di Luca Argentero come miglior interprete maschile. Non male, ma troppo statico, non si capisce se per colpa sua o per mimesi con un personaggio scipito, che di gaio ha poco e di noioso tantissimo. Nella sezione, sembra inarrivabile il divo Tony. Un Servillo così camaleontico, che nei panni di Andreotti potrebbe far storcere il naso per eccesso di bravura. Sempre valido Mastandrea di Non pensarci, attore dalle molte frecce incastrato però in un serial iniziato con Tutti giù per terra, e Claudio Bisio di Si può fare, titolo ben auspicante. In pole come miglior regista esordiente Gianni di Gregorio e il suo Pranzo di ferragosto, ma attenzione a Pa-ra-da di Marco Pontecorvo. La siciliana ribelle di Marco Amenta, resta invece troppo addomesticata dai canoni della fiction. Peccato, perché la vita della giovane Rita Atria, nel documentario dello stesso regista, veniva fuori con ben altro impatto emotivo. Data per scontata l’equa distribuzione della posta maggiore tra Sorrentino e Garrone, il premio alla sceneggiatura andrebbe forse assegnato a Francesco Bruni e Paolo Virzì per Tutta la vita davanti. Nel ritrarre la commedia umana, anche dove c’è poco da ridere, il duo ha pochi rivali. Mai come quest’anno, i nostri David hanno il compito di fare giustizia.
da Liberal 10 aprile 2009

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