mercoledì 25 marzo 2009

Chuck Palahniuk, la grande festa al centro del vuoto


Immaginate un hellzapoppin' di spietata lucidità, uniteci l'idea di un Freud anfetaminico, e un progetto di scrittura capace di far comprare libri persino a quelli che li avevano usati come zeppe dopo il primo capoverso del Fermo e Lucia. Il risultato è Chuck Palahniuk, autore pluridecorato di Fight Club, presto nelle sale con Soffocare, secondo film tratto da un suo romanzo. Americano di seconda generazione, dei nonni ucraini, Paul e Nick, ha preso il cognome. Dell'America il senso dello show, e dell'Europa quello tragico. Di padre russo e madre francese, questo irriverente cittadino di Vancouver nato nel 1962 inizia a scrivere a sei anni. Tormentato dai grotteschi racconti familiari, non può essere altrimenti. Il padre gli racconta fosche leggende sui nonni, storie di corna e di vendetta a tratti inverosimili. O bersele, o affogare. Chuck impara a mettere su carta le sue bugie, e finisce col trovare le sue verità. Il risultato è il primo romanzo, Invisible monsters. Respinto al mittente da un pugno di editori nel '92, e conteso da decine nel '99. In mezzo ci sono i bicipiti oleosi di Brad Pitt. La versione cinematografica di Fight Club fa flop nelle sale e boom nei dvd, e il romanzo omonimo, pubblicato tre anni prima, diventa di culto. Il grande schermo identifica le funamboliche abilità narrative di Chuck, le spericolatezze lessicali in equilibrio tra il rutto e il verso sacro, la continua frammentazione dei punti di vista e della logica spazio-temporale. E insieme, inaugura il paradosso interpretativo dei suoi romanzi. Alle folle piace per il ritmo incalzante, per il gioco ripetuto di ellissi e cut, flashback e ritrovati narrativi post-moderni. Esalta il suo ammiccante inseguimento della baracconata e della frase a sensazione piantata nel delirio. Ai critici piace per l'enfasi sarcastica. Teatro dell'assurdo e situazioni limite che corrodono l'impero mediatico con dosi massicce dei suoi stessi veleni. Mitridate, o capo circense. Greco classico o just a businessman. L'equivoco si pone subito. Il successo lo annienta, la risposta la fornisce lui stesso. Nel suo libro meno noto e meno bello, La scimmia pensa la scimmia fa, accozzaglia di racconti rubati dalla realtà, Palahniuk spiega che «ciascuno di noi vive un rapporto di amore-odio con gli altri, tendendo ciclicamente a isolarsi con i propri possedimenti e nei propri spazi, e a cercare di integrarsi e farsi accettare nel tessuto sociale attraverso ogni possibile meccanismo offerto dal mondo». Ogni meccanismo possibile, forzato fino all'impossibile. O meglio, fino alle più impossibili delle realtà che è capace di offrire questo mondo. L'assurda violenza di Tyler Darden, fondatore di un club delle botte che straripa in golpe massonico, il club di venerande bagasce e fantasiosi figuri che annegano nel sesso le proprie paure in Soffocare, le allucinazioni di una setta in overdose mistica in Survivor.
Situazioni limite, nient'affatto irreali. Psicoterapie per disperati, elettroshock per anime fredde come transistor. «Endorfine che soffocano il dolore», sentenzia lo scrittore americano. Nei suoi racconti ci sono sempre i sommersi e i salvati, mai divisi, a sgomitare nello stesso individuo. Possono presentarsi come doppio (Fight Club), come donna angelicata (Soffocare), come guida estetica a caccia dello spirito (Invisible monsters) ma sono sempre in lotta nello stesso individuo come principi tragici. Catarsi e perdizione. Fuori e dentro le regole, anarchici fuori perché moralisti dento, i personaggi di Palahniuk sono eroi bislacchi. Ma come gli eroi veri, quelli superciliosi, tentano sempre di scansare l'amaro calice. Di scartare il precipizio tragico con una capriola nella parodia. Non ci riescono mai, alla fine. Si ride di gusto, nel racconto delle loro vicende. Poi però arriva la frase nera nella ridda di voci festanti. Un pezzo di filosofia take away che però ti si incolla sulla bocca come le più laute vivande. Succede sempre, prima o poi. Perché alla fine di quell' helter skelter con cui dribblano la paura, per i personaggi di Palahniuk arriva sempre il momento di prendere atto. In ciò che di più estremo scelgono di essere, non c'è che la costrizione di ciò che la società vuole che siano. Sono semplici codici a barre di confezioni ipervitaminiche stampigliati da qualcun altro a tavolino. «Siamo solo prodotti», dice Shannon McFarland, top model deturpata da un terribile incidente in Invisible monsters. L'unica vera scelta di libertà, per questi buffi umani inscatolati come sardine, è il sacrificio. Il desiderio di essere quello che non volevano, per sottrarsi al gioco e sparigliare le carte. Guarigione come straniamento. Sfuggire alla prassi dell'acclamazione, con uno scarto che riconduce a se stessi e taglia fuori dal mondo che li ha creati. Proprio come gli eroi con i cosiddetti. Irritante, burbanzoso, visionario. Chuck Palahniuk è il campione dell' audience e il suo assassino. Ha l'intento di scrivere cose «in grado di cambiare se stesso». Noi ci accontentiamo, citando una poesia di Juarroz che casca a pennello, di trovare nelle sue storie qualcosa che ci riguarda. Quella grande festa, al centro del vuoto, che ci ossessiona da sempre.
da Liberal 24 marzo 2009

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