martedì 17 marzo 2009

Il piccolo teatro antico de L'Ultimo Pulcinella


«Mano a mano che noi giravamo a Napoli e a Parigi il nostro L'ultimo Pulcinella, ci rendevamo conto che il film era una sorta di canto di vita per tanti di noi che si chiedono quale sarà il suo futuro, se ci sarà, e ci sarà, dei cantastorie, dei poeti, di tutti coloro che pensano che il sogno sia una componente fondamentale della realtà». Maurizio Scaparro, pluridirettore artistico e regista di cinema e teatro, presenta così il suo ultimo lavoro. Un'opera che giunge all'indomani delle polemiche scaturite sui finanziamenti pubblici alla cultura. «Contro tutti i Baricchi del mondo, il teatro non può e non deve morire», scandisce fiero il regista. E in effetti, L'ultimo Pulcinella è un'ode malinconica al teatro che fu, e contemporaneamente un inno alla sua sopravvivenza. Senza più pubblico né gioventù, braccato da una Napoli che ha consunto i suoi simboli e li ha rubricati ad anticaglia folkloristica, l’ultimo Pulcinella di Scaparro emigra nelle banlieu. Nel passo di Massimo Ranieri, che presta corpo e voce alla maschera, c'è il racconto di un padre incerto, e al contempo di un attore infallibile, perché fallito. Una maschera che ritrova se stessa mettendosi a nudo, mostrando un volto che ha nell'artista napoletano l’esatta raffigurazione di un tempo andato che ritrova la gioventù, il pubblico, l’identificazione tra gli emarginati di Parigi. La storia è quella di Michelangelo Fracanzani, attore ostinato nel riproporre il vecchio teatro tradizionale, in un mondo che non lo vuole più. Ha un figlio, Francesco, che lo apprezza poco a causa della sua testardaggine, e una moglie da cui si è separato per lo stesso motivo. Quando il ragazzo assiste a un omicidio di stampo camorristico, lascia Napoli per la Francia e Michelangelo, abbandonato il suo vestito d’attore, lo insegue. In un vecchio teatro gestito da un’anziana attrice (una splendida Adriana Asti), ritroverà il rapporto con il figlio, l’amore del palcoscenico, e il suo ruolo nella realtà. Capobastone degli umiliati e offesi, il Pulcinella di Scaparro ritrova l’intensità della sua foga popolare, in un’Europa che è piena di molte Napoli. Ghetti in cui il disagio, la convivenza, la convergenza verso atti politici salutari e aggreganti come il teatro, latitano da un pezzo. La prima parte del film, di ambientazione partenopea, ha il respiro di un cinema antico. Massimo Ranieri e il giovane Domenico Balsamo vagabondano per la città immersi in una tensione padre-figlio che ha il respiro del primo neorealismo di De Sica. La seconda parte, cuore del film di Scaparro, rilegge un soggetto di Roberto Rossellini, semplice e sognante come una favola. Nel vecchio teatro scoperto da Ranieri, c’è la bellezza di una cattedrale nel deserto, e il piacere di vedere due grandi istrioni a confronto. Adriana Asti, milanese camuffata in soubrette parigina, e Ranieri, danno vita a duetti godibili in cui si nasconde tutta la malinconia di due istrioni al capolinea. Ottimo anche Jean Sorel, che nel ruolo di un professore universitario della Sorbona, accantona la compostezza accademica per mettersi al servizio di un folle sogno, sorto nelle banlieu e non nei rassicuranti circuiti ufficiali della cultura. Ma ciò che colpisce, è soprattutto la delicatezza e l’ironia con cui la regia di Scaparro narra l’integrazione tra les italiens e il crogiuolo multietnico della banlieu. Lontano dai cliché oleografici, dall’odioso pregiudizio positivo imposto dalla retorica verso l’altro – lo straniero – la parabola di convivenza e accettazione delineata da Scaparro passa anche dallo scontro, dall’ironia e dalla diffidenza. Per poi serrarsi semmai in Liberté, Égalité, Fraternité solo di fronte all’attività, vagamente persecutoria, della polizia. Memorabile, in questo senso, la battuta di Massimo Ranieri che affronta a muso duro le forze dell’ordine nel sottofinale. Battuta perfetta, vittoria morale, Michelangelo può calcare adesso la maschera di Pulcinella sulla faccia. Segue il canto vecchio e irredento di un Pulcinella nuovo, che ha ritrovato il suo pubblico. È la canzone napoletana, che ritrova in Francia slancio e qualità sopraffina. «È una musica colta che però non è diventata razionale, è rimasta legata a un sentimento. Io quindi ho cercato di metterci poco di mio e lasciare intatta la profondità delle canzoni», spiega il maestro Mauro Pagani che ha presieduto agli arrangiamenti dei brani, fra tutti Fenesta vascia e Palombella. Così come colta e dolente è la voce di Ranieri, che chiude il film. A molti critici è parsa un'elegia, ma si tratta piuttosto di una testimonianza, cupa ma possente, di un Pulcinella che giura a se stesso di non essere l'ultimo. Ritornato un uomo con una storia e un ruolo, il volto dietro la maschera guadagna il palco e canta la sopravvivenza dell’arte a dispetto della repressione e dell’ostilità. Si canta, si balla, ci si libera. Il teatro, «contro tutti i Baricchi di questo mondo», non può morire.
Da Liberal 17 marzo 2009

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