lunedì 16 marzo 2009

Il Festival di Tribeca al tempo della crisi


La buona notizia è che ad aprire i battenti del Tribeca Film Festival 2009 sarà il nuovo film di Woody Allen, il primo girato a New York dal 2004. La brutta è che la scure della crisi si è abbattuta anche sulla kermesse di Bob De Niro al via il 22 aprile. «Con l'attuale situazione economica dobbiamo esaminare meglio le nostre spese per il festival di quest'anno», ha dichiarato il direttore esecutivo Nancy Schafer. Il cartellone dell'edizione 2009 registra un saldo in negativo. Almeno in termini numerici, perché a fronte dei 120 film proiettati nello scorso appuntamento, il Festival del cinema indipendente nato dopo l'11 settembre, conta quest'anno su 86 lungometraggi. Meno sponsor, meno sale di proiezione, meno voglia di dolce vita festivaliera. Non è detto che sia un male. La storia del cinema insegna che quando scarseggiano i quattrini, fioriscono le idee. E a scorrere le sinossi dei film già annunciati, appare chiaro che la crisi, al Tribeca, ha più che altro il senso etimologico del passaggio. Meno opere, ma migliori. Meno soldi, più tensione civile, e un pizzico di ironia. Quella liberatoria, e di sicuro appeal in tempi grami, di Woody Allen. Stizzito dall' ingrata accoglienza riservata a Melinda e Melinda, aveva lasciato New York nel 2004. Cinque anni e quattro film dopo, la brutta congiuntura ha la bellissima conseguenza di riportarlo nella Grande Mela. Il suo Wathever Works, che.inaugura il Festival, è una dark comedy in salsa sentimentale. «È un classico film alla Woody Allen, ma è differente da tutto quello che ha già fatto», ha spiegato Evan Rachel Wood, protagonista del film. Il solito Woody ma sempre anything else, insomma. L'attesa è tanta e il ritorno della premiata ditta New York-Allen, vale il prezzo del biglietto. L'autoreferenzialità del Tribeca Film Festival si ferma qui. Nella sezione World Narrative, che raccoglie film di finzione da ogni angolo del pianeta, desta curiosità Accidents Happen, pellicola australiana che racconta il dramma agrodolce di una famiglia disfunzionale, e l'argentina The fish child, che rilegge in chiave thrilling la parabola americana di Thelma e Louise. O, per gli autarchici, Europa molto amore del nostro Giorgio Scerbanenco. Here and there, coproduzione di Germania, Serbia e Stati Uniti, propone la storia di un uomo che si ritrova improvvisamente senza un soldo e un tetto sulla casa. Finisce in Serbia a lavorare per un immigrato e si chiede se a contare davvero siano i denari o l'amore. Melodramma al tempo del crudit crunch. Imperdibile, sulla carta, l'israeliano Seven minutes in heaven per la regia di Omri Givon. Una giovane donna che tenta di rimettere insieme gli eventi che hanno portato alla morte del suo fidanzato in seguito all'esplosione di un bus a Gerusalemme. Un thriller metafisico, metà realissimo, su cui puntano in molti. Molto atteso anche About Elly dell'iraniano Asghar Ferhadi. Alcune donne vivono un misterioso weekend sul mare, secondo un plot che lascia pensare all'orrore compassato di Picnic ad Hanging Rock. Spunti di riflessione e stringente attualità anche nella sezione World Documentary Features, dove campeggiano l'australiano The burning season, incantrato su 3 uomini che fanno profitti incendiando boschi e foreste (tutto il mondo è Sicilia) su ordinazione, e Defamation, brillante inchiesta sull'antisemitismo e la denigrazione a fini strumentali. Promettenti anche Garapa di Josè Padilha, che racconta gli stenti di tre famiglie brasiliane, e Yodok Stories del norvegese Andrzej Fidyk, storia di alcuni evasi da un campo di conentramento in Corea del Nord. Spicca nella Discovery Section il documentario American Casino del giornalista americano Leslie Cockburn. Un' inchiesta che fa luce sui mutui subprime grazie al contributo di manager fuoriusciti da Bear Stearns e Standard & Poor’s. Scottante anche Playground dell'americano Libby Spears, reportage che indaga il traffico di minori in Thailandia e Corea del Nord, grazie all'aiuto di alcuni piccoli infiltrati. Bambini protagonisti anche in Which Way Home dell'italoamericana Rebecca Cammisa, che segue il viaggio di tre piccoli sudamericani alla volta degli Stati Uniti. In copertina, nella sezione Restored and Rediscoved una piccola gemma di Stanley Kramer, Inherit the wind (1961) in Italia noto anche per via di un titolo fuorviante: E Dio creò Satana (1961). Segno che nel post Bush, infiamma ancora il dibattito sull'evoluzionismo darwiniano. Cartellone impoverito, dunque, quello del prossimo Tribeca, ma più ricco di povertà. Al tempo del credit crunch, paga solo l'impegno civile.

Da Liberal 14 marzo 2009

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