giovedì 19 febbraio 2009

Sanremo 2009: la bagarre dell'osceno


Da anni era un Sanremo stantio, insipido come il tarallo che la vecchia zia ti propinava ogni anno. Era stato un Sanremo zuccheroso e ammuffito, da sorbirsi con tanta buona educazione. In fin dei conti si cantava di sole amore e cuore e poi tutti a casa a smaltire la malsana allegria. Il Sanremo di ieri, no. Il polpettone cucinato da Bonolis e soci ha preso forma in una sorta di riluttanza, di disfida alla banalità della canzonetta. Un antifestival pseudoimpegnato, pseudoincacchiato, che ha sfornato un'edizione agghiacciante. Menagramo, avvinto in un cupio dissolvi promosso da interventi grotteschi, gonfio di pulsioni necrofile e momenti lugubri, il cinquantanovesimo Festival della canzone sembra la parodia dei canti di Ossian. Tra morti futuribili, gente che vuole morire, e gente che interpreta i morti è un inno alla poesia cimiteriale, roba da far piangere di nostalgia ripensando a quel birbantaccio di Califano che voleva farsi portare a Napoli da un gondoliere. La prima epigrafe arriva dal Palazzo di Vetro, dove un bolso Miguel D'Escoto annuncia contrito che «siamo fratelli e sorelle. O accettiamo questa verità o andremo tutti a morire». Il primo pensiero che fai è che l'Ecclesiaste sia in confronto un buontempone. Ma soprattutto, chi è D'Escoto? E poi via con i riti apotropaici, scattati frattanto da soli per riflesso condizionato tra le mani e il basso ventre. Non passa neanche tanto ed ecco la valletta: Bonolis ce la presenta come la ragazza che ha interpretato la defunta ne La ragazza del lago. Parlare, la vicentina Alessia Piovan parla poco, muoversi è chiedere troppo e subito capisci che sarebbe perfetta per una parodia di Tim Burton: la Tosa cadavere. L'avvio al cardiopalma ti fa desiderare l'arrivo di Gianni Bella sul palco come non mai nella tua vita. Invece arriva Dolcenera conciata come l'angelo della morte. Assomiglia sempre di più alla versione macabra di Cristina D'Avena, e ti pare che in ogni momento possa estrarre una sega elettrica dalla pochette mentre ti intorta con Lady Oscar. Almeno la canzone è orribile, e tiri un sospiro di sollievo. Riecco il vecchio Sanremo, pensi. Ma poi arriva Fausto Leali, e comprendi che è stato solo un momento. La sua canzone è un bignamino sui figli che se ne vanno, e il papà che incanutisce nell'ombra ormai ridotto a una specie di zimbello. Tristezza e buio pesto. Dai drammi individuali riaffiora l'apocalisse formato karaoke dei Gemelli Diversi: padri alcolizzati, madri picchiate, figli malati e risse di quartiere. Una lacrima sul viso e tanta cagnara. Bonolis e Laurenti infarciscono i tempi morti di gag inumate dai loro spot sull'aldilà, e c'è tempo di oltraggiare anche Sinatra. Il venticello tiepido di Buona Domenica comincia ad aleggiare sul teatro sanremese, e ti aspetti di vedere Claudio Lippi zompettare sul palco travestito da pantegana. C'è spazio poi per quel «cane canissimo» di Tricarico, cui non difetta certo il senso autocritico, e per le soirèe bollenti, tutto sesso e carnazza di Iva Zanicchi che cerca avventure. Il comico è una funzione del tragico, pensano in molti. Poi è il turno di Luca Povia, che nonostante la passione per i piccioni, era gay. I Grillini fanno oh e tutti pensano: che meraviglia se ora si alza in piedi e grida a Povia un pezzo della canzone di Tricarico: «pene dell'inferno per te, pene senza fine». Un Sanremo De Profundis, simile all'Italia che racconta Genna: lo Stivale che ha pestato la cacca. In un quadro così desolato, tanto di cappello a Masini. Lui, almeno, è menagramo da sempre, e non ci marcia. Onore e merito al rocker toscano che ha trovato la rima più sensata a questa bagarre dell'osceno: ridateci Baglioni, che questo Sanremo ha già rotto i maroni.
Da Liberal 19 febbraio

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