venerdì 20 febbraio 2009

Ciao Oreste, bella voce in una maschera turpe


Di esistere ormai soltanto nella voce, ormai l'aveva capito anche lui. Oreste Lionello se ne lamentava da tempo. Chino sul suo bicchiere di spremuta d'arancia, logorato dalla ripresa di quel Bagaglino che sembrava aver stancato tutti, confessava di recente agli amici di sentirsi virtuale, mentre l'ombra del borsalino scendeva a eclissarne il volto. Quel volto nudo da cui troppe volte era colato il cerone tra le luci brucianti del cabaret, quella maschera umana, senza trucco né inganno, che troppe volte avevano fatto abnorme gli ammennicoli del varietà. Di Oreste Lionello, nato a Rodi 81 anni fa, non si possono che raccontare due storie.
Quella della sua anima greca, densa di isolitudine e di filosofica sprezzatura, e quella della sua maschera latina, colma di satira straccia e di sbruffoneria plautina. Quella dell'attore che in magnifica solitudine presta le sue corde a chi vive sulla scena in sua vece, e quella della maschera turpe, inzeppata dentro carnevali di genti e di copioni fessi traboccanti di quisquilie e pasquinate in do minore. Quella satira che sempre era stata tutta nostra, mai fu completamente sua. Lionello era personaggio di levità diversa, di tenore più leggiadro, che mal s'adattava alla grana grossa delle invettive imbelli e sempre strampalate ripetute fino al collasso. Non immaginava forse che quella compagnia del Bagaglino, fondata con Pingitore cinquant'anni prima, finisse schiacciata dal giogo della maniera e della riconoscibilità che lo show business impone ai suoi prodotti più venduti. Lui che si scagliava contro l'intrattenimento becero, che predicava lo scarto ironico contro l'onere di un mondo che gravava su di lui come un copione mediocre, poi si ritrovava puntuale da anni il sabato sera a eclissarsi in scena, e a cospargere di poppe e coriandoli i suoi rimpianti d'artista. Forse se ne era accorto quando era troppo tardi per lasciare, Lionello. Che pure, nell'altra sua vita, quella segreta in cui la voce in magnifica solitudine, seguiva le labbra di Woody Allen e ne scandiva in perfetta sincronia le inquietudini, mostrava di cos'era capace.
Sin da Manhattan, nel 1979, l'attore Lionello si era dimostrato l'unica persona italiana capace di poter restituire per intero il calco umoristico sopraffino del regista newyorkese. Ondivaga e querula, a tratti puntuta o sfumata di malinconica bile, la voce di Lionello si spezzava nel fiato di Allen. Fu la voce di Woody persino per i cinefili più incalliti, che esigevano il timbro indigeno con risentita saccenza. La voce di Lionello era perfetta anche per i rompiscatole da cineclub. Da attore di cinema, dentro al teleschermo, non è che gli fossero certo mancati ruoli di spicco e apprezzamento. Dopo l'esordio con la trasmissione tv Marziano Filippo, nel 1956, erano venuti titoli classici del nostro cinema come Tototruffa 62, Quattro mosche di velluto grigio e Il soldato di ventura. Non che come attore non fosse eclettico o senza vezzi. Tutt'altro. È che con quell'aria da caratterista stampata in fronte, la sua voce era sprecata. Era stata la voce del picchiatello Jerry Lewis, la voce eterna del dittatore chapliniano, e quella surreale e tragicomica del dottor Frankestein brooksiano. Era il timbro cristallino di leggende del cinema, quel timbro che per paura gli si brunisse, carezzava lui stesso ogni mattino con il doppio giro del suo sciarpone scozzese. Lo sapeva anche lui, di essere prigioniero di voci troppo alte, per restare semplicemente il corpo di un attore chiamato Oreste Lionello. La voce e il corpo, le sue due storie parallele e diverse, potevano incontrarsi solo sugli assi del Salone Margherita, dove la fisicità spariva sotto chili di trucco e plastilina, e la voce vera filtrava, rimescolata nel becerume della nostra tv, mode e moine, tic e nevrosi dei nostri personaggi più influenti. Dal divo Giulio al premier Silvio, c'era uno stracco trascinarsi in gag spuntate. Troppi sabato sera alla luce di un'atellana smagrita e sdilinquita, che ormai faceva presa solo sulle tabacchiere degli Arciclub. L'ironia di Lionello era invecchiata, e la televisione era cambiata. Si capiva ancora che era uno bravo, perché sotto la sua direzione, riusciva quasi divertente persino la Marini. I figli della tv in bianconero, di un cinema antico fatto di mestiere e voci composte, brillanti di studi teatrali e accenti di verità sudata, erano morti da tempo. E così, tra le fanfare e gli ossequi, tra décolléte listati a lutto e farseschi panegirici, una mattina di febbraio se n'è andato anche lui.
Da Liberal 20 febbraio 2009



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