sabato 24 gennaio 2009

Quando Montanelli, Moro e Giorgio Bocca esaltavano l'Italia fascista


«Non si sarà mai dei dominatori se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Niente indulgenze, niente amorazzi. Il bianco comandi». Così, il ventiquattrenne Indro Montanelli magnificava l’ardore bellico italiano, direttamente dal fronte d’Etiopia. Anni dopo il giornalista minimizzò, l’Etiopia era stata per lui solo un’ «avventura coloniale e sportiva», dichiarò. Ognuno cura la propria forma fisica come meglio gli aggrada. Magari evitando di fare jogging in compagnia di locali. E pazienza, se nell’apice della tensione cardiovascolare, sfugga di bocca un elogio alla «poesia squadrista». Cose che capitano, negli sport di gruppo. «Quando noi uomini ci formammo, lui era già un Mito lontano», specifica Montanelli a proposito della vacanza sportiva. Il Duce, si sa, era un coach eccellente, ma un po’ inaccessibile. Una specie di Mourinho, per intenderci. Lo spregio per il totalitarismo, l’intolleranza, la limitazione della libertà, e l’antifascismo, non impedirono a un quanto mai audace Aldo Moro, di prevedere prima di tutti esiti scientifici oggi largamente condivisi in campo biologico. «La razza - proclamava ai discepoli nel 1943- è l’elemento biologico che, creando particolari affinità, condiziona l’individuazione del settore particolare della esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo delle particolarità dello Stato». Detto in soldoni, lo Stato si fondava a quel tempo per Moro, sulla razza. Forse tenui rigurgiti dei tempi del Guf e dei Littoriali fascisti da lui frequentati con passione e non certo perché costretto, come dichiarò anni dopo, visto che l’Università poteva essere frequentata nel Ventennio senza alcun obbligo di adesione. Molto più semplice, capire come le pagine delle sue lezioni baresi per la casa editrice Luce, furono ridotte e mutilate nella ristampa successiva alla sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Parlare del «valore fondamentale del Fascismo ( la maiuscola è sua) nella storia della civiltà», dategli torto, non era più così opportuno. Vetusto di bile antisemita, Giorgio Bocca, antifascista di professione, si era concesso un breve congedo il 14 agosto 1942. «Sarà chiara a tutti – ammoniva sul giornale della federazione fascista di Cuneo con sabbatica flemma – la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù». «Sarà sotto l’egida dell’Asse invincibile, la nuova Europa del Diritto, della Giustizia, della Libertà, dell’Amore», gli fa eco l’allora direttore del Corriere della Sera, Giovanni Spadolini. Una Cee dai padri nobili insospettabili. Anche Ungaretti, complice un refuso, si lasciò trascinare nel labirinto della correzione ortografica, che per una serie irripetibile di sfortunati eventi, trasformò il suo sempiterno antifascismo, in un sobria esaltazione della «pietà romana del Duce» che «insorse in mezzo ai forsennati». Solo allegria di naufraghi. Dopo lo sbarco, anche la sbornia più pertinace restituisce l’impegno civile e il lirismo engagè. Solo alcuni piccoli esempi, di come l’antifascismo, la Repubblica italiana e i valori della civiltà postbellici, siano stati fondati da gente che aveva avuto davvero voce in capitolo. Gente che, a dispetto delle bizze della memoria, se ne intendeva davvero.

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