giovedì 27 settembre 2012

I Taviani in corsa per l'Oscar: a Cesare quel che è di Cesare. Analisi di un film antishakespeariano e coraggiosamente nichilista


Soverchiava anche le immaginazioni più fervide, la speranza che un docu-film di ascendenza teatrale, girato in un sussiegoso bianco e nero senza attori professionisti e distribuito in una quarantina di sale d'essai carbonare, potesse entrare nel novero dei film stranieri che si contenderanno l'Oscar nel rutilante baraccone hollywoodiano. Eppure Cesare deve morire dei fratelli Taviani ha varcato il Rubicone grazie al trionfo di Berlino, e un successo internazionale crescente che ha già portato la pellicola in 71 Paesi del mondo. 

«Siamo felici ed è solo l'inizio di un bel viaggio. C'è tanta strada da fare», commentano i due con la consueta asciuttezza che li accomuna fuori e dentro il set a grandi maestri come Robert Bresson. Ma in fondo devono sapere bene anche loro che la candidatura agli Academy awards potrebbe trasformare la passerella al Festival di New York, dove sono in concorso, in una sorta di prequel. Un eventuale successo di critica e di pubblico, spianerebbe ai fratelli la strada verso il capitolo più importante di una carriera straordinaria, cui è sempre mancata l'apice maledetto dell'investitura nazional-popolare. Per non tacere che un trionfo darebbe requie a un piccolo drappello di critici e spettatori, ormai incanutito nell'attesa che Paolo e Vittorio venissero finalmente insigniti del giusto riconoscimento planetario.Cesare deve morire non è certo l'unica delle opere sublimi firmate dal duo in più di mezzo secolo, ma è tra queste la sola che può riuscire nell'impresa di diventare un classico della cinematografia mondiale, non solo per i polverosi archivisti del cinema più prezioso e sommerso, ma anche per il grande pubblico che potrà trovarvi forse un orizzonte inedito, differente da quello angusto della seconda opportunità che da sempre è abituato a vedere. 

Sarebbe sin troppo facile rilevare come il Cesare rappresenta per i Taviani il dado che rotola via a margine di un'intera carriera. E si potrebbe dire che con quest'opera il sodalizio abbia lasciato da canto i sapori calligrafici di cui qualche stolido si è doluto a proposito di episodi come Padre padrone, Le affinità elettive e le colte riletture pirandelliane di Kaos e Tu ridi. Avrà persino buon gioco qualche acerrimo fustigatore del loro presunto malcostume, che ne ha denunciato con sprezzo l'impegno politico di fede repubblicana dando prova di sconfinata asineria rispetto a quella piccola costola del nostro cinema più alto di sempre, che si chiama neorealismo e non è certo materia inerte da telefoni bianchi. Ma la verità è che le ossessioni di una carriera, dal pedinamento zavattiniano al farsi della storia shakespeariano, dall'Erma bifronte di Pirandello allo straniamento brechtiano, con il Cesare deve morire si fondono insieme nell'opera più perfetta della loro carriera. Imbattutisi tra i detenuti di Rebibbia, in mezzo a carcerati impegnati in un laboratorio teatrale di stampo rieducativo, i fratelli Taviani hanno stravolto tutto. E non solo perché hanno destrutturato il Giulio Cesare di Shakespeare ribaltandone la concezione storica che presiede ogni suo dramma, ma anche per il fatto che hanno saputo trasformare la vita in teatro in maniera talmente assoluta, che i protagonisti della pellicola gridano più verità quando recitano, che quando tornano prigionieri del triste ruolo di carcerati. Un tipico cortocircuito pirandelliano, si direbbe. Di cui però non ha neppure la sulfurea scaturigine dei sei personaggi di zio Luigi, ma l'impressionante straniamento della naturalezza. La stessa per la quale accade che a un prigioniero diventi facilissimo fingere, e assai più faticoso vivere esposto al disagio di una telecamera che schiva da uomo e insegue da teatrante senza storia. Ne deriva che da Rebibbia, luogo senza tempo dove la storia non penetra, i Taviani escono portandosi via una tragedia anomala e impossibile, in cui il dolore impera e non fiorisce in catarsi. E seppure qualche corrivo ha scomodato a proposito dei Taviani la contemporaneità del Bardo così come mirabilmente argomentata da Jan Kott, si noterà che il concetto di attualità è più che sensato, ma secondo argomenti rovesciati. «Esistono», annotava il saggista in Shakespeare nostro contemporaneo, «due tipi fondamentali di tragicità storica. Alla base del primo sta la convinzione che la storia ha un suo senso, compie certi suoi compiti precisi e tende verso una determinata direzione. Tragico, in questo caso, è il prezzo della storia, lo scotto che l'umanità deve pagare per il progresso. Ogni innovazione che spinge innanzi l'implacabile rullo compressore della storia assume allora delle direzioni tragiche, ma proprio per questa sua natura precorritrice deve restarne fatalmente schiacciata». Ma nella cornice claustrofobica di Rebibbia, dove la storia è negata a molti dalla profezia eternamente compiuta dell'ergastolo, il meccanismo tragico che vede l'evoluzione della storia oliato dal sangue e dalla barbarie del nuovo si inceppa. 

La preveggenza di un mondo nuovo, che Shakespeare affida a sicari determinati ma ciechi che come le talpe amletiche scavano cunicoli attraverso cui si insinua la storia, nella Rebibbia dei Taviani inverte la direzione perché rovista tra le macerie affinchè la storia vi resti intrappolata in una nuova foggia. Non illumina - se non in pochi casi - un impossibile avvenire, ma solo la drammaticità di un passato irredimibile che perciò non riscatta il futuro, ma ne appesantisce la stazza gigantesca. Ed è per questo che Cesare deve morire realizza l'impossibile perfezione di una tragicità irrisolta, che apre un nuovo senso alla storia dei suoi personaggi, ma nega il progresso agli uomini che li incarnano. Nel momento stesso in cui cala il sipario, e le celle si richiudono dietro di loro, il terremoto della tragedia vibra sotto le loro brande, mentre la catarsi resta fuori dalle sbarre. Non l'avremmo saputo dire meglio, rispetto alla perenne zoppia che separa la teoria dal fatto, di uno dei protagonisti dell'opera. Chiuso in gattabuia, nell'epilogo del film, "Cassio" sussurra la sua epigrafe: «Da quando ho scoperto l'arte, questa cella è diventata una prigione». Frase rivelatrice, che dice ancora una volta come i Taviani siano riusciti ad andare oltre il buonismo di maniera di altre opere pedagogiche, per catturare il dramma senza infingimenti. Lontani dalle speranze rieducative che ogni laboratorio teatrale porta con sé, i fratelli di San Miniato mettono in effigie la scomoda verità di una catarsi impossibile. L'attore tragico, insieme superstite e prototipo di un uomo nuovo, torna nella sua cella ancora più distante da quel mondo di cui solo ora avverte a pieno la separatezza. 

Ed è qui che la splendida disperazione degli antieroi dei Taviani, sterza verso il cinema puro. Mentre il teatro accorcia i centimetri che separano gli uomini dagli uomini, il Cesare dei Taviani acuisce il distacco brutale tra attori e spettatori, e dunque tra attori e mondo. Così che nel momento di massima fusione tra pubblico e teatranti, arriva al culmine il senso di un strappo irreparabile. È accaduto frattanto che gli attori abbiano trovato sì nelle parole di un genio vissuto cinque secoli fa, i demoni che hanno popolato le loro storie. Un groppo alla gola che in qualche caso li rende muti, perché gli impedisce di recitare ciò che hanno provato davvero. Uomini d'onore, parole date e mai tenute, congiure, l'assassinio del capo supremo a nome di un gruppo che insegue il potere e il destino con spietata cecità. Le parole di Shakespeare restituiscono occhi e bocca a questi antieroi che hanno fatto loro il dramma nelle viscere della malavita. E qui non deve sfuggire neppure l'enorme provocazione che i Taviani accettano di lanciare al loro pubblico. Lungi dal forzare pentimenti e giaculatorie a favore di telecamera, i fratelli lasciano a spietati criminali l'ardire di aver partecipato alla storia per riscriverla insieme ai tragici personaggi della Roma del Divo Giulio. Un vortice che li innalza e che insieme li affonda nell'abisso della colpa, che ci permette di riscoprire l'uomo anche nel reietto. È la magia del cinema, sospendere il giudizio. Fraternizzare con ladri e criminali senza pretenderlo per assunti, ma attraverso la vita stessa di cui sono tragici portatori. 

I Taviani ci impongono da maestri la meravigliosa perfidia del racconto e ribadiscono ancora una volta il segreto che muove il grande cinema: per raccontare è necessaria la provocazione della comprensione. Ed è ancora la settima arte a irrompere quando cala il sipario sul Cesare e la rappresentazione, dopo mesi di prove, è andata in scena ed è finita. Il testimone delle istanze partecipative del teatro, fatte di comunione e condivisione, di finzione che sfocia in realtà, schiva gli applausi e finisce tra le grinfie di quella tragicità costituente che è insita nel cinema. Dei buoni film si può dire che siano crudeli. Perché la verità ci inghiotte tra le sue fauci, solo per sputarci via quando la pellicola smette di girare nel rullo e la scoperta della finzione ci azzanna alla gola. Dove il buon teatro si conclude in matrimonio, il buon cinema sigla un divorzio senza ritorno tra attori e spettatori, e tra opera e pubblico. In questo senso il Cesare dei Taviani è un film che non può essere rivisto. (f.l.d)

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