venerdì 22 giugno 2012

NAPOLITANO PARLA DI ILLAZIONI, MA LA VERITA' E' CHE SU MANCINO IL COLLE E IL SUO STAFF HANNO MOLTE COSE DA DOVERE SPIEGARE


Roma. Presente alla festa della Guardia di Finanza all’Aquila, Giorgio Napolitano prova a parare i fendenti piovutigli addosso da parte della stampa a causa di una sua presunta ingerenza volta a proteggere Nicola Mancino dall’accusa di falsa testimonianza che la Procura di Palemo addebita all’ex ministro nell’ambito della trattativa tra Stato e mafia. Un contrattacco deciso, quello del Quirinale, che giunge non a caso proprio nel giorno in cui Panorama  svela che tra le intercettazioni scottanti che vedono Mancino invocare i buoni uffici del Quirinale, si possa ascoltare un paio di volte anche la voce dello stesso Napolitano. Il settimanale fa sapere che le telefonate in oggetto saranno distrutte, ma il capo dello Stato assicura che sulla vicenda è «stata alimentata una campagna di insinuazioni e sospetti sul presidente della Repubblica e sui suoi collaboratori costruita sul nulla». Ed ha poi aggiunto che «si sono riempite pagine di alcuni quotidiani con le conversazioni telefoniche intercettate in ordine alle indagini giudiziarie in corso sugli anni delle più sanguinose strage di mafia del ’92-’93 e se ne sono date interpretazioni arbitrarie e tendenziose e talvolta perfino manipolate».

Ma come si è arrivati a quella che Napolitano definisce una “campagna di insinuazioni”? La risposta, oltre che nei fatti quanto meno imbarazzanti di questi ultimi giorni, è da cercarsi a monte. In una domanda di verità, su quella terribile stagione delle stragi del ’90, che le istituzioni continuano ad evadere, nonostante il coinvolgimento ormai acclarato di alcuni pezzi dello Stato, forse deviati o forse no, nella trattativa. Il tourbillon che ha finito per lambire il Colle, comincia il 9 giugno scorso, quando l’ex ministro degli Interni, Nicola Mancino, viene raggiunto da un avviso di garanzia per falsa testimonianza  spiccato dai magistrati di Palermo. «Emergono evidentemente delle contraddizioni nelle cose dette, dai diversi esponenti delle istituzioni sentiti: quindi qualcuno mente. Ora è compito della procura e del tribunale capire come sono andate veramente le cose», dice il sostituto procuratore Nino Matteo subito dopo l’audizione di Mancino davanti alla quarta sezione penale che svolge il processo contro gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu. In particolare, i magistrati sembrano molto scettici sulla versione fornita da Mancino a proposito della “trattativa”. Claudio Martelli ha infatti raccontato agli inquirenti di un suo incontro con Mancino nel luglio del 1992, in cui si sarebbe lamentato per le attività non autorizzate dei Ros. Mancino però nega: «Abbiamo parlato di altro». Ma la Procura di Palermo diffida dell’ex ministro, anche perché, dopo aver negato a lungo di aver incontrato Paolo Borsellino il primo luglio del 1992, giorno del suo insediamento al Viminale, ritrova parzialmente la memoria durante le deposizione al processo Mori: questa volta fa sapere di non escludere di averlo incontrato.
Quale che sia la verità, nei mesi che precedono l’avviso di garanzia, l’ex ministro degli Interni tradisce una certa agitazione. E comincia un insistito pressing sul Quirinale, che lo vede in stretto contatto con il consigliere giuridico del Colle, Loris D’Ambrosio, dal 25 novembre 2011 al 5 aprile scorso. «Eccomi, io ho parlato con il Presidente e ho parlato anche con Grasso (il procuratore nazionale antimafia, ndr), gli dice D’Ambrosio  in una telefonata del 12 marzo 2012. Il consigliere si è infatti attivato perché Mancino gli ha chiesto un intervento per tirarlo fuori dall’inchiesta dei pm siciliani sulla trattativa. Non si sa a che titolo, visto che a nessun altro cittadino come lui è concessa questa prerogativa, Mancino sostiene infatti che i magistrati di Palermo e Caltanissetta e Firenze non si coordinano «e che arrivano a conclusioni contraddittorie fra di loro». D’Ambrosio gli preannuncia che intercedere è difficile, ma non sembra abbandonarlo a sé stesso. «Ma noi non vediamo molte... molti spazi purtroppo, perché non..., adesso probabilmente il Presidente parlerà con Grasso nuovamente... eh... vediamo un attimo anche di vedere con Esposito... (il procuratore generale della Cassazione, ndr)... qualche cosa... la vediamo insomma difficile la cosa, ecco...(...)». 

Che cosa preoccupa Mancino, lo dice lui stesso in un’altra intercettazione con D’Ambrosio. «No, perché poi la mia preoccupazione è ritenere che dal confronto con Martelli... Martelli ha ragione e io ho torto e mi carico un’implicazione diciamo sul piano processuale». Proprio quello che è effettivamente accaduto pochi mesi dopo. D’Ambrosio gli spiega che l’unica speranza si chiama Grasso, altrimenti non c’è niente da fare.
«Ecco, insomma, noi ecco, parlando col Presidente se Grasso non fa qualcosa, la vediamo proprio difficile qualunque cosa...», dice il consigliere del Colle a Nicola Mancino. Ma evidentemente, i consiglieri del Quirinale hanno la faccenda a cuore, perché il segretario generale della Presidenza della Repubblica, Donato Marra, invia una lettera al procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito chiedendogli informazioni «sul coordinamento delle inchieste fra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze sulla trattativa». Mancino si dimostra preoccupato e vorrebbe che quella lettera restasse segreta. E D’Ambrosio gli spiega: «In realtà quello che adesso uscirà, se esce, esce la lettera del Presidente, esce la lettera di Marra a nome del Presidente. E cioè che gli dice: dovete coordinarvi. Tu Grasso, cioè, fai il lavoro tuo, ecco». Proprio come gli aveva prospettato D’Ambrosio, il procuratore nazionale antimafia è stato invitato dal Quirinale a “coordinare le inchieste”.  Con il beneplacito di Napolitano. «L’ha detto lui», assicura D’Ambrosio a Mancino, «io voglio che la lettera venga inviata, ma anche con la mia condivisione sostanzialmente».

Il 19 aprile, le promesse si traducono in fatti. Il nuovo procuratore generale, Gianfranco Ciani, convoca il procuratore nazionale Piero Grasso. Ma dal verbale ufficiale di quella riunione, emerge che Grasso non abbia nessuna sudditanza psicologica. «Il procuratore generale rimarca l’importanza della funzione di coordinamento investigativo e della coerenza delle iniziative d’indagine collegate...». L’inchiesta funziona benissimo così, dice in sostanza il procuratore, e non è scoordinata per niente. Ma ciò che colpisce è che Grasso va oltre: «Precisa di non avere registrato violazioni del protocollo del 28 aprile aprile 2011, tali da poter fondare un intervento di avocazione a norma dell’articolo 371 bis codice di procedura penale...». Avocazione? Perché mai Grasso parla di “avocazione”? Tuttavia il procuratore va avanti, non c’è nessuno stop.

A questo punto Mancino deve convivere con il suo rovello. Martelli sostiene di avergli detto che i Ros stavano trattando per conto dello Stato con Vito Ciancimino. Nella telefonata del 12 marzo dice a D’Ambrosio: «Lui (Martelli, ndr) dice, vedi un poco che quelli fanno attività non autorizzate, io non mi ricordo che lui me l’ha detto, ma escludo che me l’abbia potuto dire. Tuttavia, ammesso che me lo ha detto, perché se lui sapeva di attività illecite non lo ha detto alla Procura della Repubblica, lui che era Guardasigilli?». E poi si sfoga: «Ma che razza di Paese è, se non tratta con le Brigate rosse fa morire uno statista. Tratta con la mafia e fa morire vittime innocenti. Non so… io anche da questo punto di vista… o tuteliamo lo Stato oppure tanto se qualcuno ha fatto qualcosa poteva anche dire mai io debbo avere tutte le garanzie». Garanzie venute meno. Parole che fanno pensare a un patto tradito, a un compromesso “per il bene della Nazione”. È per questo che Mancino ha trovato così grande solidarietà addirittura in ambienti vicini al Colle? Illazioni, sospetti. Che questa storia, la storia di questo Paese, rende più che legittimi, doverosi. (f.l.d)
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