sabato 8 ottobre 2011

"Anna Politkovskaja, un simbolo per non arrendersi al bavaglio". A tu per tu con Ottavia Piccolo.

Da Liberal 8 ottobre 2011

Roma. «Sono passati cinque anni dalla morte di Anna Politkovskaja, ma il suo coraggio e la sua onestà continuano a vivere dopo di lei. Pur di raccontare ciò che ha visto, la giornalista russa ha sacrificato la sua vita. In un momento tanto difficile per l’informazione, la sua figura ci ricorda che il diritto di sapere dipende dal dovere di informare. Tutti noi abbiamo ancora tanto bisogno di Anna. È un simbolo che deve aiutarci a non rassegnarci». Regina del teatro italiano, Ottavia Piccolo calca da qualche anno le scene di tutta Italia con l’intensa intepretazione di un monologo di successo (meritatissimo, e incoronato da ben tre premi Enriquez) dedicato alla giornalista della Novaja Gazeta. Scritto da Stefano Massini, per la regia di Silvano Piccardi e le musiche a cura dell’arpista Floraleda Sacchi, Donna non rieducabile è al Teatro India di Roma fino al 9 ottobre. E nonostante veleggi ormai verso le cento repliche, sarà ancora a Perugia, Bergamo, Cagliari e molte altre province d’Italia.
Ottavia, che cosa ti ha spinto ad accettare la sfida di raccontare Anna Politkovskaja?
Nel tempo di internet l’informazione è in apparenza sempre più libera e sfuggente alle maglie del potere. Ma anche se in parte è così, è cresciuta molto anche la possibilità di manovrarla ad arte. Raccontare ciò che si vede senza sconti, senza paura delle conseguenze proprio come faceva Anna Politkovskaja, è stato e resta pericoloso ancora oggi. E qualche volta, come sappiamo bene anche in Italia, ci si rimette la pelle.
“Donna non rieducata” si compone di alcuni estratti della sua attività giornalistica. Ma che cosa ti ha colpito di lei in quanto donna?
La sua apparente tranquillità. Una specie di quieta ostinazione che la portava in terre pericolose in cui sapeva benissimo di essere una presenza scomoda. Sapeva anche di non poter fare altrimenti. La forza della verità, la voglia di raccontarla, l’ha indotta a non tirarsi mai indietro. Non solo a parole, ma anche con i fatti. 
Ha salvato molte vite senza mai un accenno autoreferenziale.
Anche lei, come Perlasca, ha salvato vite umane pensando che al suo posto tutti avrebbero fatto la stessa cosa. Nonostante gli orrori di cui fu testimone, dai desaparecidos ceceni alle torture, Anna aveva ancora grande fiducia nell’umanità.
Non si era mai data arie.
Era una donna riservata ma caparbia. Viveva il suo mestiere come una specie di obbligo. Era nata a New York, aveva passaporto americano e un nome ormai consolidato che le avrebbe permesso di condurre una vita serena. Eppure continuò a considerarsi una persona normale, che si limitava a fare il suo mestiere.
Quanto bastava perché il Cremlino la definisse iuna “donna non rieducabile”.
Ciò che addolora è che dai suoi scritti non traluce mai accanimento ideologico. Raccontava ciò che vedeva con rigore e lucidità perché non ancorava la sua libertà di pensiero al pregiudizio. La forza dei suoi scritti è tutta nei fatti che racconta.
Che cosa direbbe di quello che accade oggi, se fosse ancora viva?
Devo rivelare una cosa. Sua figlia Vera mi ha confessato di recente che aveva strappato alla madre una promessa. Vera si fece giurare che non appena fosse rimasta incinta, Anna avrebbe lasciato la Cecenia per starle vicina. Non ci fu il tempo. Quando Vera seppe di aspettare un figlio, la promessa di Anna fu spezzata da due colpi di pistola.
Da quel giorno a oggi le indagini hanno fatto qualche passo in avanti seppur tra grandi ostacoli. Sapremo mai la verità?
Credo che la verità sulla sua morte resterà insoluta, come insolute restano tante vicende oscure che ancora oggi interrogano l’Italia, da Piazza Fontana a Ustica. Forse è questa inquietudine, questo senso vischioso di mistero, che spiega la grande attenzione che l’opinione pubblica italiana ha riservato alla giornalista russa.
Da noi i segreti di Stato sono una specie di format. Ma quando smetti i panni di attrice, e diventi anche tu un po’ spettatrice, che cosa vedi negli occhi di chi ha sentito il monologo?
Molti vogliono conoscere altri dettagli, chiedono chiarimenti, cercano risposte al loro stupore o testimoniano il loro rammarico. Mi accorgo che gli italiani hanno tanto bisogno di verità. La gente ha bisogno di sapere.
“Bisogno”. Una parola che assomiglia a un doppio schiaffo. A chi dice che “la cultura non si mangia” e che gli italiani vogliono solo le veline perché tanto la maggior parte ha la quinta elementare.
L’attenzione ricevuta da Donna non rieducabile dice che il teatro civile, come la tv cosiddetta impegnata, è vivo e coinvolge persone di ogni genere ed estrazione sociale. La gente si accorge di aver bisogno di piccole schegge di verità da fare stridere nei placidi ingranaggi della quotidianità. Eppure qualcuno maligna.
Maligna anche tu.
Qualche solone dice che raccontare vicende come quelle della Politkovskaja, significhi mercificare la cultura. Io preferisco la gente che sgomita in piazza per ascoltare un premio Nobel, piuttosto che quella che si scalmana per i provini del Grande Fratello.
La Politkovskaja e il Grande Fratello, due modi di raccontare la realtà?
C’è un raccontare, come quello di Anna, che equivale ad agire. È un non lasciare che le cose, o parte delle cose, accadano. (f.l.d.)

Nessun commento:

Posta un commento