martedì 22 marzo 2011

Le gaffe di Sarah Palin, la donna da fiction che scotennava i caribù

Pensavamo che la vetta solitaria del kitsch l’avesse raggiunta Shu Uemura quando trasformò Shirley MacLaine in una improbabile geisha giapponese. Ma cinquant’anni dopo il mondo dei make up artists hollywoodiani si stringe in un fraterno abbraccio attorno all’intreprido truccatore che avrà il compito di realizzare un camouflage da guinness dei primati: dalla sofisticata bellezza di Julianne Moore alla pesante fisiognomica di mamma orsa Sarah Palin. Che pure di ogni cosa potrà essere tacciata, tranne che di sciatteria. Non è facile rintracciare qualcuno che per trucco e parrucco abbia messo in conto spese del Grand Old Party qualcosa come 150mila dollari. Teatro dell’evento sarà la nuova miniserie che il network americano Hbo dedicherà all’ultima corsa verso la Casa Bianca che due anni fa vide trionfare Barack Obama. E in sorte alla magnifica interprete di The hours, un’espressione per ogni lentiggine, è piovuta dal cielo l’ex governatrice dell’Alaska già candidata alla vicepresidenza degli Stati Uniti in ticket con John McCain nel 2008. Dell’originale plot del serial, uno dei primi squisitamente politici in cui riferimenti a persone e cose sono puramente voluti, si conosce ancora poco se non il fatto che è un riadattamento del libro di Mark Halperin e John Hellemann, Game Change, acuto pamphlet che mette a fuoco i più alti esiti della castroneria politica americana. Viene da sè dunque che un prolisso capitolo del volume enumeri le imprese della simpatica bracconiera del suprematismo bianco, da alcuni mesi somma voce del Tea Party che chiede la testa di Obama in quanto «arabo, socialista e discendente di negri e islamici». Quanto rovello filosofico per una semplice abbronzatura, direbbe a Sarah un altro mago dell’understatement che non a caso ne apprezza i modi spicci e le forme di assodata tradizione mediatica. Assai prominenti ovunque,  ma tendenti a diradare a un dipresso del lobo frontale. E d’altronde Sarah è donna d’azione. Forse l’unica eroina d’azione di cui si annoverano soltanto le parole epiche. E bene farà Julianne Moore a mandare a memoria nozioni che hanno fatto la storia recente. Innanzitutto la geografia, per la quale rimandiamo la musa di Haynes alla lettura di Borges. Se l’effetto è quello di un’acuta labirintite, la reviviscenza è a buon punto. In televisione Sarah ha infatti collocato l’Iraq in un fantasioso iperuranio ignoto persino a Platone (vuoi vedere che Atlantide...), ha coniato un’America a 57 stati, si è opposta con tutte le sue forze all’idea strampalata che l’Africa sia un continente e ha rivelato all’umanità basita un retroscena che nemmeno Wikileaks: il vero alleato di Washington è la Corea del Nord. Per meglio intendere il profondo cuore del personaggio, si rimanda poi la Moore a una capatina in Alaska. Da dove, garantisce miss Palin, si gode di un panorama esclusivo: nientemeno che la Madre Russia. Numeri da circo che hanno indotto autorevoli osservatori repubblicani, a chiedere una moratoria per Palin. Un avvilito Ross Douhat ha chiesto dalle colonne del New York Timesuna separazione (consensuale ma anche no) tra la cacciatrice delle alci e le file repubblicane. Dana Milbank si è ripromessa sul Washington Post di tacere il suo nome per un mese intero. Il notista politico di Fox News, Carl Cameron, ha rivelato che nel 2008 lo staff di McCain era molto preoccupato perché Sarah non aveva «il livello di conoscenze necessario per un candidato».
E alquanto imbranati, sono stati i tentativi della volitiva madrina del Tea Party di ripulire la sua immagine, ormai stabilmente entrata nella Hall of Fame della redneck, la proverbiale zoticheria a base di armi e intolleranza sudista. Anche in questo caso, Julianne scoprirà quanto la realtà superi la fiction. Uno. Sarah ha dato per morta la senatrice Gabrielle Giffords con tanto di condoglianze su Facebook. Per i più maligni un augurio, visto che su un piantina politica da lei elaborata pochi mesi prima aveva disegnato sulla testa della donna un delizioso mirino. Due. Dopo aver rimproverato Obama per l’uso del gobbo, miss Palin viene pizzicata a un congresso del Tea Pary con degli appunti scritti sul dorso della mano. Rude, ma genuina. Tre. Al debutto come conduttrice di Real American Stories, manda in onda due interviste: una non autorizzata, l’altra taroccata. C’è n’è abbastanza per rimpiangere l’intraprendente guerriera dei ghiacci, quella che calvalcava sul permafrost del confine russo, inguainata in lingerie di foca. Dovè finita l’amazzone che al grido terribile di Refudiate! era capace di lanciarsi contro un cornuto di caribu islamico e di scotennarlo con la sola imposizione dei molari? A Julianne un caloroso in bocca al lupo. Con l’aria che tira, e il livello culturale medio dell'elettore americano, se la ritroverà presto alla Casa Bianca. (f.l.d)

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