martedì 22 febbraio 2011

A tu per tu con Lina Sastri: «Porto in scena la donna più straordinaria che abbia mai conosciuto: Ninetta, mia madre»

«Un flusso dell’anima, scritto di getto, senza correzioni, qualche tempo dopo la morte di mia madre. In parte di ispirazione autobiografica, come tutti gli scritti di chi scrittore non è di professione, un tributo alla donna più bella e straordinaria che io abbia mai conosciuto, Anna, detta Ninetta, che era mia madre». Non ci sono parole più intense sincere che quelle di Lina Sastri, per presentare La casa di Ninetta.
Nato a partire da un piccolo libro edito da Marsilio, il racconto dell’attrice partenopea doveva restare nella dimensione privata. «Era uno sfogo, era solo la voglia di stare vicina a mia madre, nella maniera totale e solitaria che solo lo scrivere sa dare a chi ha bisogno di ricordare», spiega la Sastri nel presentare quello che invece è diventato anche uno spettacolo teatrale di grande presa emotiva allestito già lo scorso anno al Piccolo Eliseo e un dvd edito da RaiTrade proprio in questi giorni. Un’esperienza che la critica dotta definirebbe catartica, quella che Lina si appresta a rivivere a Roma, dove La casa di Ninetta riapre le porte dal 16 febbraio al 6 marzo nell’incantevole cornice del Teatro dei Comici di piazza Santa Chiara. «Avevo pudore e imbarazzo nel descrivermi pubblicamente e pensavo che la storia potesse avere una valenza più segreta e vera se letta in privato», confessa l’attrice. «È difficile per un’attrice stare sul palco e dire i fatti suoi senza recitare – dice una Sastri commossa – Rischi di cadere nella debolezza della recitazione quando c’è qualcuno giù in platea che ti guarda».
Ma l’esitazione ha infine capitolato di fronte all’«incredibile ostinazione» di Ninetta. «È una donna terribile, continua a essere presente nelle nostre vite anche dopo morta. Di solito portare in teatro un’opera richiede immani fatiche e continue mediazioni. Stavolta no, è come se mamma Ninetta avesse fatto tutto da sola, decisa come nessuno ad andare in scena». Divertita, l’attrice racconta che La casa di Ninetta è diventata anche un ristorante a Napoli. «Lo gestisce mio fratello – spiega Lina – ed è il posto dove io e lui possiamo incontrarci tutte le volte che torno a casa». Quella di Ninetta, Lina l’aveva comprata nei quartieri spagnoli quando mamma si era ammalata, «crocifissa da una malattia che non perdona, che umilia il corpo e la mente, come l’Alzheimer». Non parlava più Ninetta, ormai da un pezzo. Ma mai aveva smesso di cantare, nonostante il male, tant’è che la sua voce accompagna i diversi capitoli in cui suddiviso la versione della pièce in dvd. «La libertà di Ninetta è quella della sua musica, una leggerezza che io non ho» aggiunge l’attrice. Che prima nel libro e poi nello spettacolo, non ci porge solo l’anima nuda di sua madre, ma anche, in modo assai intenso perché del tutto involontario, un ritratto di donne partenopee sanguigne, di una Napoli incantevole e terribile insieme, di famiglie forti, perché anche quelle «rotte e smembrate» sono famiglie. Sanno mostrare meglio di tutte la forza dei legami»
E poi a incombere su tutto come una spietata tagliola che squarcia il cuore, e fa vera ogni cosa, c’è la malattia, l’avanzare degli anni e la lunga marcia della solitudine, l’amore dato e poi reso. La sua mancanza che lo ingrandisce: «perché sentirne la mancanza vuol dire che ce l’hai dentro», sussurra Lina. Ad aiutarla a riversarlo sul palco, dalla vita alla scena che stavolta è più vera del teatro, è stata la regista Emanuela Giordano. «Temevo l’effetto Grande Fratello», spiega l’attrice, «provavo pudore e imbarazzo nel recitare un’opera che non era nata con il pensiero di essere mostrata. C’era l’enorme pericolo di cadere nella recitazione». Ma il corpo a corpo con il paradosso dell’attore, quello di mostrarsi nudi, spogli dei mille abiti rubati e fatti propri dagli armadi di altre vite, ha visto Lina imporsi e vincere.
Sul palco, l’attrice si espone, regala il suo dolore a piene mani facendone un sacrificio tragico che si presenta catartico sotto le sembianze di un nodo alla gola. Eppure traspare anche gioia, dalla figura di questa mamma Ninetta, donna capace di amare senza riserve, di sopravvivere in un dopoguerra che sembra il finimondo, di opporre al vento gelido dela miseria il canto quotidiano di una donna tenace. Una figura tenera e dolente, quella di Ninetta, che nell’amore per la melodia, nell’ostinata speranza che vibra nel canto, ci riporta alla mente la splendida mamma de La prima cosa bella. Il luogo prescelto dalla Sastri, dicevamo, è il Teatro dei Comici a Santa Chiara. «Il posto giusto per ricordare Ninetta, il luogo più adatto per questa piccola preghiera. Un modo per ritrovare la pace, per svelare il mistero di quella luce che aveva negli occhi che non l’ha mai abbandonata neanche quando la malattia l’ha fatta tornare bambina.
Dimenticava i volti, le vicende passate, i nomi. Aveva scordato tutto, ma le canzoni no». «La cosa più bella – spiega la Sastri – è che dopo aver letto il libro o dopo aver assistito allo spettacolo – molte persone si avvicinavano e mi parlavano di lei, pur senza averla conosciuta davvero. Mi dicevano: “Secondo me, Ninetta...”. È la conferma che lei vive ancora, non solo in me, ma attraverso me, negli altri». Un rapporto profondo, quello tra Lina e Ninetta, che porta indietro le lancette del tempo. «Sono fuggita di casa a diciassette anni – racconta a liberal la Sastri – senza studi, senza una lira, ma con tanta voglia di fare teatro. Mamma non si opponeva al fatto che io avessi potuto fare l’attrice. Ciò che la preoccupava era il mio destino. “Sarai condannata a essere una zingara. Chi viaggia, chi si sposta sempre, non può trovare la felicità per la stada”, mi diceva. «Il teatro mi era sconosciuto. Lo consideravo una cosa da ricchi o da letterati. Perché è vero che esistono le classi, e il popolo al quale appartengo ha un suo snobismo al contrario, un’antica diffidenza che rifiuta la forma, anche quella dell’arte. È qualcosa che mi è rimasto dentro e che mi rende la vita più difficile e più intensa allo stesso tempo. Lo avevo fatto a scuola, il teatro, con le suore. E me ne restava un ricordo, soprattutto di odori: odore di legno e di polvere. E così, finita l’adolescenza senza averla vissuta, mi venne una violenta voglia di viverla in modo più adulto e infantile al tempo stesso. Un’adolescenza senza flirt nè compagnie nè spensieratezza. Ma più densa, più segreta. Il teatro era un sogno, non pensavo che avrei fatto l’attrice, mai. Era solo una follia, una follia di libertà. Ma a giudicare dalla carriera di Lina, forse Ninetta si era sbagliata. «Nel bene e nel male il teatro mi ha dato tanto. Vivere una passione fino in fondo non significa raggiungere o non raggiungere la felicità. Significa vivere per quello che fai, e non poter fare a meno di farlo, al di là di ogni cosa». Difficile non pensare al grande Edoardo De Filippo, nel ripercorrere in un lampo la vicenda artistica di Lina. «Ma di lui non posso o non voglio ricordare un aneddoto o una frase. Quando penso a De Filippo, la cosa più intensa che sento è il suo silenzio. Ricordo i suoi silenzi».
Non si possono mettere a verbale certe vite intense. Non si possono riassumere in capitoli, in schede autoconclusive e ordinate a uso e consumo di biografi. «Per me ricordare e raccontare non è un’operazione semplice – ci dice l’attrice – È qualcosa che è scritto nella mia vita. Da ragazzina, dicevano tutti che sembravo più grande, e interpretavo ruoli di donne che avevano molti più anni di quanto non ne avessi davvero. Ero oltre me stessa, in avanti e all’indietro. E se penso, mi rivedo alle volte bimba di cinque anni. Nel tempo, dentro di te, si mischia tutto. Sei bimba, sei vecchia, sei adesso». Per la strada, per quella strada che Ninetta vedeva irta di insidie, di buche in cui era facile inciampare e farsi male, Lina ha trovato invece un lungo e importante cammino. E poi c’è la passione per il canto, per la canzone napoletana sperimentata da una Lina ancora giovanissima, nella Compagnia di Canto popolare di Roberto De Simone. E che negli anni è tornata costante in album e interpretazioni di rara intensità. Da Ninetta a Lina c’è dunque il legame invisibile del canto, come un’eco che ti entra nella pelle e risuona ogni volta con le stesse vibrazioni volatili del ricordo. Forse è proprio questa la ragione per cui La casa di Ninetta è un monologo intenso, folgorante. «L’ho scritto di getto, senza correzioni, un flusso di coscienza guidato soltanto dall’istinto. Oggi che ho vinto le titubanze nel farne prima un libro e poi uno spettacolo, mi rendo conto di che cosa sia davvero La casa di Ninetta, conclude Lina. «È un luogo magico che aspetta una preghiera». (f.l.d)

Da Liberal 22 febbraio 2011

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