venerdì 3 dicembre 2010

Aretha Franklin sta male. Le preghiere dei fan: God save The black queen

Per una regina come lei, l’avanzata implacabile degli anni e degli acciacchi è un atto di lesa maestà. Ma a dispetto di una voce incorruttibile, sottratta per sempre all’osceno ticchettio del metronomo, Aretha Franklin non sta bene. La signora del soul è stata ricoverata ieri in ospedale per un delicato intervento chirurgico. Proprio lei, il bene naturale dichiarato patrimonio dell’umanità dallo stato del Michigan. Improvvisamente aggredita da un flash-mob chimico-carnale che l’ha condotta senza rispetto in un letto d’ospedale. Filtrata, amorevolmente deviata agli assi delle temporalità spicciola, la notizia del malore alla fine si è sparsa. E a Detroit, sono state organizzate in quattro e quattr’otto veglie di preghiera e sit-in. Deve trattarsi di una brutta vicenda, perché Aretha debba rinunciare al suo canto. Il suo portavoce aveva già annunciato per tempo che i concerti dei prossimi mesi devono considerarsi annullati. A partire dalla data del 9 dicembre, un atteso live natalizio che avrebbe portato la sovrana di Memphis sul palco di Detroit. Sussurri, poi indiscrezioni. Infine conferme. Dall’inquietudine si è venuta l’apprensione. Sono moltissimi, in queste ore, i fan che hanno voluto recapitare alla Franklin i propri messaggi di incoraggiamento. In tanti si sono rivolti alla fede, e lei non ha voluto far mancare un segnale di gratitudine. «Tutte le preghiere sono buone», ha commentato Aretha, che forse così ha voluto alludere a uno stato di salute non troppo incoraggiante.
Per la verità, i sentori di una scarsa forma fisica c’erano tutti. Il mese scorso la stessa diva aveva annunciato una sospensione delle attività su ordine dei sanitari. Dopo 21 Grammy Awards, migliaia di concerti e sessant’anni di carriera, il concetto è chiaro. Se una così, capace di prendere cinque ottave di pianoforte a piena voce si ferma, il motivo è grave. Perché Aretha ha sempre avuto polmoni d’amianto. E quando decide di ficcarci dentro l’aria per sparare un do sovracuto di petto, è meglio se ti affidi a un reggimano. Non l’ha mai fermata niente, sin da piccola. Lei che a quindici anni aveva già sfornato due figli, e si ostinava a cantare il gospel e a picchiare sui tasti dell’organo nella chiesa bigotta di un padre predicatore. Lei che sfila di mano Respect a Otis Redding, la strapazza per bene, e la trasforma nell’inno di battaglia delle milizie femministe. Lei che nel 1998, quando ormai era data bollita da tutti, sostituisce Pavarotti da un minuto all’altro, e trasforma un Nessun dorma improvvisato lì per lì in quella che è considerata una delle più grandi performance musicali del ’900. Indomabile, ma anche romantica. In un modo imperioso e selvatico che ha significato per molte la voglia di gridare l’amore, senza sentirsi per questo vulnerabili. Aretha l’ha cantato, prima di truccarsi, mentre si pettina i capelli, quando pensa a che cosa indossare, la voglia di amare. La vita e l’amore. A Detroit sono tutti in attesa impaziente. E certo qualcuno si affida alla forza degli aneddoti, perché è così che si fa per ingannare l’incertezza. C’è un desiderio. Aretha che si alza, il petto che risale mentre l’aria lo gonfia. Un do sovrumano, uno tsunami che strappa via le asticelle del pentagramma. Il metronomo osceno, finalmente immobile, incantato.

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