giovedì 2 settembre 2010

Tony Blair: novecento pagine, zero pentimenti. «La guerra in Iraq era giusta». Il conflitto raccontato in un memoriale.


«Ha dei rimorsi?». La domanda dell’alto funzionario pubblico incaricato di fare luce sulla legittimità della guerra in Iraq si abbatte come un macigno sulla testa di Tony Blair. È il 28 gennaio del 2009, e la secca domanda di Sir John Chilcot, rischia di mandare in frantumi il partito laburista scosso dalla contestata gestione Brown. Sono trascorsi nove anni da quel primo maggio del 2003 in cui la seconda guerra in Iraq era cominciata. La catastrofica avventura irachena rappresenta il cuore de Il viaggio, l’autobiografia di Tony Blair, da oggi in vendita nelle librerie di tutto il mondo: in Italia lo pubblica Rizzoli (pp 824, 24 euro). Ebbene, nel Viaggio Blair confessa di provare rabbia per quella inchiesta, affidata proprio a Chilcot, che «era diventata un processo alla nostra buona fede», ma anche “sincera angoscia" per le migliaia di vittime: «Loro sono morti e io, la persona incaricata di decidere sulle circostanze che hanno condotto alla loro morte, sono ancora vivo». Ma dopo il rapido tormento, Blair risponde all’angosciante domanda di Chilcot: «Non posso avere rimorsi sulla decisione di andare in guerra». I rimorsi sono legati al passato, spiega l’ex premier, che semmai preferisce parlare di responsabilità: «Posso solo sperare di redimere in parte la tragedia di quelle morti con le azioni di una vita, la mia vita, che ancora va avanti». Vaste programme, direbbe qualcuno.
Più avanti l’ex inquilino di Downing Street torna a vagliare il dilemma che lo spinse ad appoggiare il conflitto. «Perché mai Saddam avrebbe impedito così a lungo l’ingresso degli ispettori, se non aveva niente da nascondere?», si interroga. Blair si convinse a entrare in guerra in base a quanto emerso dal rapporto Duelfer del 2004, nel quale era spiegato che Saddam «voleva ricostituire l’arsenale bellico quasi del tutto distrutto nel 1991» e «aspirava a sviluppare un potenziale nucleare». Anche se le conclusioni presenti nel rapporto risultarono poi fantasmagoriche in pieno e delirante stile neocon, Blair spiega che sarebbe stato altrettanto pericoloso credere che il dittatore iracheno sarebbe invecchiato serenamente senza provocare alcun danno. «Lasciare Saddam al potere era un rischio maggiore che deporlo», scrive Tony, che però ammette una errore prospettico: «non avevamo previsto il ruolo di al-Qaeda e dell’Iran»

L’ex leader progressista passa poi a un altro punto vibrante della sua apologia: le accuse di essere entrato in guerra per arraffare barili di petrolio: «Se l’obiettivo fosse stato questo – chiosa Blair – avremmo potuto siglare un accordo con Saddam in un secondo». (Probabilmente ai prezzi di Saddam, arguiremmo). Altro luogo comune che Tony rivanga con incrollabile tenacia, è il sistema di sanzioni contro l’Iraq. Ormai erano diventate inefficaci, racconta, perché Baghdad le indicava al popolo come capro espiatorio di una situazione umanitaria disperante. Per tale motivo, spiega Tony, pensare che si sarebbe dovuto proseguire sulla strada delle sanzioni, avrebbe lasciato l’Iraq in un cul de sac. Ma su tutto, come un grande pedale pressato sino al fondo, c’è una data tragica: «Senza l’11 settembre, la guerra in Iraq non sarebbe scoppiata», scrive Blair, ammettendo che alcuni settori del governo americano, avessero enfatizzato a torto il ruolo di Baghdad nell’attentato. Restava comunque il fatto che esso «non era un attacco mirato a colpire un bersaglio politico definito», ma «una dichiarazione di guerra totale» come il mondo non aveva mai viste prima. Nonostante anche Tony si rendesse conto che al-Qaeda e il regime di Saddam si muovessero su binari differenti, aveva però «l’impressione che a un certo livello, stesse prendendo forma un’alleanza tra Stati canaglia e gruppi terroristici». «Dal mio punto di vista progressista – precisa Blair – avevo raggiunto la stessa conclusione ci era arrivato George (Bush, ndr) da una prospettiva conservatrice». (E forse, la strana coincidenza, avrebbe dovuto illuminarlo) Nei Balcani e in Sierra Leone, a suo parere, era stata data prova che rinsaldare la democrazia fosse possibile. «Se c’era un un popolo che aveva bisogno di liberarsi era certamente il popolo iracheno», annota Blair, che anticipa un primo giudizio sugli esiti. «Non andò così», spiega, «perché c’era in gioco il futuro dell’Islam», ed «era impossibile che le forze ostili» «ci lasciassero facilmente il controllo dei territori». Si riferisce agli attentati terroristici di al-Qaeda, legati all’Iran. «Avevamo iniziato combattendo Saddam, ma avevamo finito col combattere le stesse forze reazionarie contro cui lottiamo in ogni parte del Medio Oriente», confessa. Blair parla di un doppio conflitto: «uno per destituire Saddam», «e un altro più prolungato per risolvere gli effetti della destabilizzante epidemia di terrore». Traboccanti di tenerezza, i passaggi che Blair dedica all’alleato americano George W. Bush. Tony lo descrive come un uomo  «dotato di un gran senso dell’umorismo, deliziosamente autocritico», e precisa che non si trattasse affatto di un idiota, ma di un presidente pieno di “genuinità“, che «vedeva il mondo con immensa semplicità». Come trovarsi in disaccordo, idiozia a parte. Dai colloqui con il presidente americano, Blair aveva tratto la convinzione che «la Gran Bretagna doveva rimanere fianco a fianco» dell’alleato, perché era in ballo «un interesse strategico cruciale». Tony sottolinea poi gli svantaggi della guerra in Iraq, «la prima nell’era dell’onnipresenza dei media», e i personali tentativi di scongiurarla fino a che la risoluzione dell’Onu, a fine 2002, non avesse concesso un’ultima chance a Saddam. La decisione fatale arriva però in un tormentato Natale trascorso a Chequers. «Sapevo che quella poteva essere la fine della mia carriera politica. Volevo solo sapere qual era la cosa giusta da fare». Blair aveva scelto la guerra.

Anni dopo, gli esiti di quel conflitto sono illustrati dall’ex premier con un secco distinguo: «La campagna militare di conquista fu un grande successo, la campagna civile di ricostruzione invece no». Tony non fa fatica a confermare l’inadeguatezza dei piani americani per il dopo Saddam, sebbene rivendichi tre parziali successi della missione: innanzitutto fu evitato il disastro umanitario (toh),  fu poi scongiurato l’impiego di armi chimiche e biologiche da parte di Saddam (che tra l'altro, come ricordato dallo stesso Blair, non ce le aveva), e fu impedito che i pozzi petroliferi venissero incendiati, salvando così il territorio da una catastrofe ambientale. Da bell'anima progressista, Blair aveva insomma mandato l'esercito in Iraq per fermare il global warning. Tony confida che a un certo punto avrebbe voluto mettere la missione in Iraq sotto l’egida dell’Onu, non appena si fossero concluse le ostilità, «ma gli americani ritenevano che l’Onu fosse un ostacolo». Probabilmente perché gli americani sono l'Onu, ed essere in disaccordo con se stessi è un fastidio non da poco. Se avessimo creato una coalizione, spiega Blair, «ci sarebbero state irritanti lungaggini con la burocrazia dell’Onu, ma avremmo goduto dell’enorme vantaggio del consenso internazionale». Gli Usa fanno larghe orecchie da mercante, e nonostante i primi due mesi a Baghdad avessero già prodotto il collasso del regime, i capi dell’operazione sopravvalutano «la capacità dei civili di ricostruire l’Iraq». «Quel che andò storto», spiega Blair, «fu il versante della sicurezza». Blair registra inoltre le forti resistenze della comunità internazionale, che trovano in Putin un fiero oppositore del conflitto. «Gli americani credono di poter fare ciò che vogliono a chiunque gli pare», gli dice un indignato leader russo. Da cattivo progressista, Tony non gradisce le scomode verità. 

Il 22 maggio l’Onu approva la risoluzione 1483 che rimette alle Nazioni Unite la road map dello sviluppo iracheno. Emergono frattanto attraverso le inchieste giornalistiche di Gilligan alcune notizie non corrispondenti al vero, sulla base delle quali era stato giustificato l’intervento in Iraq. Roba da farci una Treccani tematica. «L’intelligence aveva commesso un errore a proposito dei 45 minuti» (secondo il rapporto del Jic, il tempo necessario a Saddam per organizzare un attentato biologico-chimico, ndr), ma si trattava di «un errore» e non certo di «dolo», si difende l’ex inquilino di Downing Street. Ma su questo punto, Blair non cerca alibi, perché cercarli sarebbe stato, più che ridicolo, bushiano: «La nuda e innegabile verità è che non trovammo mai le armi di distruzione di massa». Blair finisce nella tenaglia dei media, il clima intorno a lui si fa incandescente, cresce lo sdegno per morti e feriti sul fronte. Le lungaggini e i giochi sporchi della guerra, fiaccano l’iniziale ottimismo che aveva salutato in America l’intervento armato. Schiacciato anche dal fronte interno, Blair subisce l’enorme impatto bellico suscitato dai kamikaze. «Tra il 2003 e il 2006 ci furono migliaia di attentati suicidi riusciti. Senza quelle bombe, il problema della sicurezza in Iraq sarebbe stato molto diverso», commenta l’ex leader laburista. «A metà del 2006 era ormai chiaro che la campagna militare non stava procedendo bene», scrive Blair, che denuncia come gli atti terroristici non sorgessero dalla frustrazione per la ricostruzione mancata, ma «erano tentativi deliberati di sabotarla». È tempo di bilanci, e a Blair tocca trarre le conclusioni. «Dovremo essere costruttori di nazioni, e in Iraq abbiamo chiaramente sbagliato su questo punto», innanzitutto. E poi «potenziare il prima possibile le forze di sicurezza gestite dalla popolazione locale», cosa che è stata fatta in Iraq con enormi ritardi. Terzo punto: «L’azione politica deve affiancare la sicurezza e la ricostruzione». Multinazionali e contractors che si sono mangiati l'Iraq? Neanche a parlarne, d'altronde Cheney è per Blair una brava persona, solo uno zinzino sopra le righe. Forse colpa dei generosi boccali serviti nel ranche di mister Double. Con il senno di poi, sono questi, ma non troppo chiari, i principali errori individuati da Tony Blair. «Avremmo potuto fare di più e meglio, questo è certo», «ma non c’è mai stata né mai ci sarà una campagna di qualsiasi natura che non si svolga diversamente dal previsto».
Nè mai ci sarà una biografia politica che si svolga diversamente dal previsto. Siamo al topos del rammarico. Dai pentimenti sul piano strategico, Blair passa a sciogliere il nodo doloroso delle vittime di guerra. Chi furono i responsabili? «Non i soldati americani o britannici», dice persuaso. E anche la perorazione conclusiva, non brilla di particolare ingegno: «Abbiamo lottato per il diritto degli iracheni a un governo democratico» (dove l'abbiamo già sentita?). L’ex inquilino di Downing Street csi congeda citando la lettera recapitatagli da un donna irachena assassinata dai terroristi. «Che cosa mi direbbe oggi?», si chiede Blair trafitto. Probabilmente gli chiederebbe se al mattino, mentre pettina la chioma lustra, pensa mai alla sensazione di venire assassinati in casa propria. (f.l.d)

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