giovedì 28 aprile 2011

Addio a Mauro Masi, un direttore generale così non si licenzierebbe nemmeno nello Zimbawbe

Roma. Nelle ore trepidanti che separano Mauro Masi dallo sgombero di viale Mazzini, neppure il maramaldo più spietato avrebbe il cuore di infierire. E ora che un altro milite di Arcore si appresta a tornare ignoto per una vile congiura, ora che Letta e Romani non gli rispondono più al telefono, sarebbe disonesto non concedere al dg l’onore delle armi. Nemmeno nello Zimbabwe si licenzierebbe mai un direttore generale come Mauro Masi. Se non altro perché il modo ancor l’offende. Ormai chiusa la volenterosa avventura in Rai, la nomina ad amministratore delegato di Consap era attesa ieri dal dandy di Civitavecchia per le 12 e 30. E invece Masi non fa in tempo a rispolverare il completo bianco alla Tony Manero, ad aprire la camicetta pervinca sul petto villoso, che arriva la beffarda notizia: l’assemblea della concessionaria è slittata all’11 maggio, perché quella prevista in prima battuta è andata deserta. Voci di corridoio dicono però che l’assemblea potrebbe tenersi già questa mattina: la maggioranza è sfibrata dalla questione libica e il rimpasto dovrà essere rivisto. Certo alla Consap il clima non è dei più favorevoli: l’insediamento di Masi (ad) e Maria Grazia Siliquini, che dovrà rinunciare però alla presidenza della società (resterà Andrea Monorchio) è stato salutato con parole non troppo lusinghiere: «Una schifezza che la Corte dei conti non permetterà mai».

Ieri si era sparsa voce che l’assemblea della concessionaria avrebbe potuto fare melina almeno per un altro mesetto, con l’effetto di lasciare Masi al suo posto, ma del tutto esautorato, e senza il benché minimo interesse a continuare in quella famosa «azione che consenta... insomma... che sia da stimolo alla Rai per dire: chiudiamo tutto». E di ritardare per di più la contestuale nomina dell’erede del superdirettore generale, indicato da molti nel suo vice, Lorenza Lei. È lei la favorita di Berlusconi, nella corsa alla poltrona del Minculpop. Ma sarebbe ingeneroso ipotizzare che la donna possa riuscire dove Masi non ha fallito. Fedele seguace del barone d’Holbach, il direttore generale ha avuto il tipo di stomaco che il filosofo tedesco suggeriva al cortigiano perfetto: «tanto forte da digerire tutti gli affronti che il suo padrone vorrà infliggergli». Ha telefonato ad AnnoZero, si è dissociato da se stesso, si è associato all’Isola dei Famosi, ha sopportato Travaglio che «non dice una parola in più di quello che è andato già su tutti i giornali», è stato ospite da Vespa e si è battuto come un leone per fargli presentare Sanremo, ha difeso i viaggi premio di Minzolini, ha assistito impassibile alle gag di Luca e Paolo sull’Ariston e al plebiscito dei giornalisti Rai, un buon 94% che lo voleva fuori dalla porta. Mauro Masi ha dimostrato in questi due anni di avere tutte la carte in regola per vivere a Corte, e cioè «un dominio assoluto dei muscoli facciali, al fine di ricevere senza battere ciglio le peggiori mortificazioni». Ha subito molti affronti, e lo sappiamo bene dalle intercettazioni di Trani. Ha ascoltato compunto le minacce del premier che accusava lui e Innocenzi di «essere un barzelletta», ha avuto persino un sussulto di coscienza: «Roba così nemmeno nello Zimbawbe». No, non può essere detto un uomo asservito. È che Masi sa bene che «un individuo rancoroso, dal brutto carattere o suscettibile, non riuscirà mai a fare carriera». È l’approfondita conoscenza di quel prezioso Essai sur l’art de ramper, ad avere inguaiato il dg, che buon ultimo ha dovuto subire l'estremo vilipendio: essere preso per i fondelli persino da Gianni Morandi. «Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale ma solamente quella del padrone o del ministro», spiega d’Holbach. Ed ecco che dopo l’irriverente successo di Luca e Paolo, che al Festival avevano cantato l’ira funesta di Silvio contro il reprobo Fini, il direttore generale si scaglia preventivamente contro «una satira politica da televisione commerciale non adatta ad una platea così vasta ed eterogenea come quella del Festival che fa servizio pubblico».

Ed ecco che qualche giorno dopo Luca e Paolo gli telefonano nel corso de Le Iene. Masi li riconosce e mette giù stizzito. Poi arriva Morandi in studio e cala il poker:«Mi manda Masi. Voleva rispondervi ma gli si è scaricata la batteria del telefono…». Eppure il dg di Civitavecchia le ha provate tutte, per mettere la mordacchia ai suoi acerrimi nemici. Si è inventato ad esempio il fantozziano principio della ridondanza, che stabiliva che lo stesso argomento non potesse essere affrontato in tv prima di sette giorni. E ha dato appoggio ai conduttori a targhe alterne: ovviamente solo il martedì e il giovedì in curiosa coincidenza con la presenza di Floris e Santoro in video. Di Vespa neanche a parlarne. Se Masi vedeva in lui l’erede di Pippo Baudo, evidentemente c’era motivo. «A volte è insolente e a volte è vile; può dar prova della più squallida avarizia e della più insaziabile avidità», il cortigiano de l’Essai. Ma anche di «un’estrema magnanimità», come nel caso di Augusto Minzolini, che non pago di aver precipitato il Tg1 in una moria di ascolti abbastanza consistente, in un labirinto kafkiano di scimpanzè tabagisti e vasetti per la pupù di bimbi flatulenti, ha ricevuto dal dg un benefit di 86mila euro per ringraziarlo dell’instancabile attività giornalistica svolta dal direttorissimo tra mete come Marrakech, Cannes, Ischia, Capri, Positano, Cortina, Taormina e Madonna di Campiglio. Si, magnanimo, si diceva. La stessa qualità che si staglia dall’appunto di un giudice, chiamato a studiare «il caso umano» di Anthony Smit, fratello della sua compagna bisognoso di lavoro. Masi ottiene per lui dal gruppo Anemone, oltre all’assunzione, anche un appartamento che costa al gruppo 950 euro al mese. Per Masi, il più grande direttore uscente, vale insomma quello che scrisse d’Olbach: «I popoli ingrati non percepiscono la reale portata degli obblighi propri di questi uomini generosi che, pur di garantire il buon umore del Sovrano, si votano alla noia, si sacrificano per i suoi capricci, immolano in suo nome onore, onestà, amor proprio, pudore e rimorsi; ma come fanno quegli ottusi a non rendersi conto del costo di tanti sacrifici?» È tutto qui il tormento del dg. E chissà che l’ingratitudine del Paese non lo porti sulla via di Santoro. Se non altrove, forse stavolta se ne andrà a farsi un bicchiere.
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