giovedì 12 marzo 2009

Per conoscere da vicino il Dalai Lama e il suo Tibet in catene


«Prima di addormetarmi, penso sempre per qualche minuto. Penso alla gente in Tibet. A quello che sta soffrendo, al suo dolore. E mentalmente recito una preghiera di ringraziamento per essere libero. Un rifugiato, ma libero. Che può parlare per il suo popolo e cercare di alleviarne le sofferenze». Sono trascorsi settant'anni da quando il piccolo Lhamo Dondrub, non ancora diventato Dalai Lama, passava i suoi giorni a giocare con l'acqua davanti a povere baracche di legno. Sin da allora, Tenzin Gyatso capì come le miserie umane corressero lontano. Un incessante fluire che fa provvisoria l' esistenza, e però ne impreziosisce il valore. Nonostante l'invasione cinese, le rivolte represse nel sangue, l'esilio e i negoziati, il Buddha non ha mai smesso di essere Kundun, presenza di un intero popolo. Impermanence, documentario del regista Goutam Ghose, ripercorre il tempo di Tenzin Gyatso, dall'infanzia alle ultime scottanti vicende, ma anche il suo spazio, quel Tibet silenzioso e mistico, per molti versi risulta inedito grazie a speciali permessi di girare in luoghi sacri. Un'opera necessaria, che è anche l'elegia di una cultura in catene.

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