giovedì 10 gennaio 2013

«Ci fu trattativa tra Stato e Mafia»: finalmente la politica ammette il segreto di Pulcinella: ora tutti i bugiardi di professione e i complici chiedano scusa al Paese e alla Procura di Palermo

Il discorso di Pisanu in commissione Antimafia è di quelli che saranno ricordati nei prossimi anni per coraggio e voglia di verità senza compromessi. E uno di quelli che in molti faranno finta di non ricordare. «Noi conosciamo le ragioni e le rivendicazioni che spinsero Cosa nostra a progettare e ad eseguire le stragi, ma è logico dubitare che agì e pensò da sola», scolpisce il parlamentare a futura memoria. C’è dunque spazio per il dubbio, il sospetto è più che legittimo e sopportato da vicende sanguinose ed enormi che gli italiani aspettano di conoscere da vent’anni. Sete di giustizia e di verità da cui Pisanu, rara avis di una classe politica preda di un garantismo peloso e di una smemoratezza dolosa, non fugge, in virtù di un discorso schietto e veemente. «Possiamo dire che ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa nostra divisi tra loro e quindi privi anche loro di un mandato univoco e sovrano. Ci furono tra le due parti convergenze tattiche, ma strategie divergenti: i carabinieri del Ros volevano far cessare le stragi, i mafiosi volevano invece svilupparle fino a piegare lo Stato». Ora che anche un personaggio del calibro istituzionale di Beppe Pisanu lo dice chiaro e tondo sulla base delle migliaia di carte analizzate dalla commissione Antimafia, sarà difficile controbattere per i negazionisti di professione. Quanti da anni si indignano nei talk show contro le Procure che vogliono riscrivere la storia, prendano dunque atto: nonostante non si fossero degnati di prendere atto di una miriade di evidenze processuali, la storia non è stata riscritta da nessuno. Semplicemente perché non può essere riscritta una storia che non è mai stata raccontata. E abbondantemente occultata da scribacchini in malafede e attori smemorati che hanno preferito dimenticare, se non depistare.
A conclusione dell’inchiesta sulle stragi del 92-93 da lui presieduta, il parlamentare sardo afferma che «sembra logico parlare, più che di una trattativa sul 41bis, di una tacita e parziale intesa tra parti in conflitto». Ci furono dunque obiettivi differenti, spiega dunque Pisanu, ma è innegabile che Stato e mafia trattarono da pari a pari, e che nonostante una certa resistenza delle istituzioni al papello, il potere ricattatorio della malavita organizzata fu lungamente subito, o per lo meno accreditato al tavolo dei colloqui con le istituzioni. Si voleva far deflettere lo Stato, anche se ancora non è chiaro il limite oltre il quale non volle spingersi. «Piegarlo fino a qual punto? All’accettazione del papello o di qualche sua parte?», si domanda Pisanu, che su questo pare convinto che «a rigor di logica e a giudicare dai fatti, non si direbbe. Se Cosa nostra accettò una specie di trattativa a scalare, scendendo dal papello al più tenue contropapello e da questo al solo ridimensionamento del 41bis, mantenendo però alta la minaccia terrificante delle stragi, c’è da chiedersi se il suo reale obiettivo non fosse ben altro: e cioè il ripristino di quel regime di convivenza tra mafia e Stato che si era interrotto negli anni Ottanta, dando luogo a una controffensiva della magistratura, delle forze dell’ordine e della società civile che non aveva precedenti nella storia. Certo, l’obiettivo era ambizioso, ma il momento, come ho già detto, era propizio per la mafia e per tutti i nemici dello stato democratico». Il presidente della commissione Antimafia non allude dunque allo Stato in sè, ma a dei pezzi deviati dello stesso che si sono arrogati il diritto di rappresentarlo con la cooptazione di superiori compiacenti pronti a deviare il corso delle cose in direzione di interessi spesso meschini.

La mafia, chiosa Pisanu, «di certo non prese ordini da nessuno, perché ha sempre badato al primato dei suoi interessi e all’autonomia delle sue decisioni. Tuttavia, quando le è convenuto, quando vi è stata convergenza di interessi, non ha esitato a collaborare con altre entità criminali, economiche, politiche e sociali». Anche entità politiche, quindi, che Pisanu esemplifica nella partecipazione della mafia in collaborazione con luminosi esponenti della massoneria al golpe di Junio Valerio Borghese. O nella simulazione del rapimento del finanziere Michele Sindona, che invece era gradito ospite dei divani della borghesia mafiosa palermitana. L’intreccio tra eversione politica, malavita e funzionari infedeli è raccontato così da Pisanu: «Dopo le stragi del ’92 e ’93 gli analisti e i vertici degli apparati di sicurezza colsero subito il mutamento della strategia mafiosa di aggressione allo Stato e lo attribuirono a una convergenza di ‘interessi macroscopici illeciti, sistemazione di profitti, gestione d’intese con altre componenti delinquenziali ed affaristiche, nazionali ed internazionalì,come disse il prefetto Parisi. Sulla stessa linea, un rapporto della Dia del 1993, descrisse ‘un’aggregazione di tipo orizzontale’ composta, oltre che dalla mafia, da talune logge massoniche di Palermo e Trapani, da gruppi eversivi di destra, funzionari infedeli dello Stato e amministratori corrotti».
E si arriva poi al capitolo più scabroso: la trattativa tra gli uomini del Ros e Vito Ciancimino. Naturalmente chi conosce gli atti processuali troverà nelle parole di Pisanu una semplice conferma, in quanto il processo ha visto in Mario Mori una sorta di reo confesso che agì in nome dello Stato, ma senza avere mandato ufficiale (anche perché una carta intestata che lo delegasse a trattare con decreto governativo, sarebbe stata un’iniziativa alquanto coraggiosa). «I carabinieri e Vito Ciancimino hanno cercato di imbastire una specie di trattativa», annota il presidente della commissione Antimafia.  «Cosa nostra li ha incoraggiati, ma senza abbandonare la linea stragista; lo Stato, in quanto tale, ossia nei suoi organi decisionali, non ha interloquito ed ha risposto energicamente all’offensiva terroristico-criminale», dice Pisanu.  Che precisa però come «nessuno dei vertici istituzionali del tempo ha mai pensato di apporre il segreto di Stato su quelle vicende». Di apporre il segreto non ci fu alcun bisogno, viene da dire. Perché bastarono l’omertà e la reticenza. Ma allora che cosa furono le stragi di mafia? Pisanu risponde che «se nel ’92-’93, similmente ad altre fasi di transizione, si mise in opera una strategia della tensione, Cosa nostra ne fece parte. O meglio, fu parte, per istinto e per consapevole scelta, del torbido intreccio di forze illegali e illiberali che cercarono di orientare i fatti a loro specifico vantaggio. Indebolire lo Stato significava renderlo più duttile e più disponibile a scendere a patti». Ma il parlamentare sardo spiega che lo Stato, quello non infetto, alla lunga non si piegò. «Certamente con le stragi del 1992-93 Cosa nostra inflisse allo Stato perdite irreparabili di vite umane e preziose opere d’arte, dimostrò la massima potenza di fuoco, ma segnò anche l’inizio del suo declino». Ad avviso di Pisanu la mafia «si è inabissata nella società, nell’economia, nella politica e da allora non è più riemersa con la forza delle armi; la sua leadership è stata decapitata e fino ad oggi non è neppure riuscita a ricostruire gli organi di governo; i suoi affari hanno subito il salasso continuo dei sequestri e delle confische dei beni; e in definitiva ha perso peso e prestigio anche rispetto ad altre organizzazioni criminali nazionali, come la ‘ndrangheta, tanto all’interno quanto all’estero». Una ricostruzione questa. che stante le pagine di cronaca, ci permettiamo di ritenere non del tutto condivisibile, visto che la mafia più placida, ma certamente non vinta, si è spesso mescolata alla classe dirigente. Bisogna ritenere infatti, alla luce di cronache giudiziarie lucidissime, che forse la mafia non ha più avuto bisogno di sparare perché spartiva la torta direttamente da padrone di casa, invece che da ospite. Sulla trattativa, Pisanu aggiunge poi altre preziose annotazioni. Se da una parte il presidente della commissione sente di escludere che «nella trattativa non entrarono i vertici delle istituzioni», dai presidenti del Consiglio Amato e Ciampi, di cui «non possiamo mettere in dubbio la loro parola e la loro fedeltà a Costituzione e a Stato di diritto». Pisanu rilancia «il sospetto che, dopo l’uccisione dell’onorevole Lima, uomini politici siciliani, minacciati di morte, si siano attivati per indurre Cosa nostra a desistere dai suoi propositi in cambio di concessioni da parte dello Stato». E qui fa un nome preciso: «In particolare Calogero Mannino, ministro per il Mezzogiorno nella prima fase della trattativa (lasciò l’incarico nel giugno del 1992), avrebbe preso contatti al tal fine col Comandante del Ros, il generale Subranni». Su Mannino, ricorda Pisanu, «pende ora una richiesta di rinvio a giudizio per il reato aggravato di minaccia ad un corpo politico, amministrativo e giudiziario. Analoga richiesta, ma per un periodo diverso, pende su Marcello Dell’Utri. Occorre anche ricordare che Nicola Mancino, ministro dell’Interno dal giugno 1992 all’aprile 1994 è stato indicato, per sentito dire, dal pentito Brusca e da Massimo Ciancimino come il terminale politico della trattativa. Il primo lo indica stranamente associandolo al suo predecessore Rognoni che, peraltro, aveva lasciato il ministero dell’Interno nel 1983, nove anni prima dei fatti al nostro esame; il secondo è un mentitore abituale». E poi Pisanu non risparmia una stoccata allo stesso Mancino che davanti all’Antimafia «è apparso a tratti esitante e perfino contraddittorio. La Procura di Palermo ne ha proposto il rinvio a giudizio per falsa testimonianza». Su Mannino e Mancino Pisanu avverte che «una semplice richiesta di rinvio a giudizio non può dare corpo alle ombre».
E molte ombre da dissipare restano anche su quel 15 gennaio del 1993, che vide l’arresto di Totò Riina, da molti reputato piuttosto oscuro. Quale fu la contropartita della mafia? Si chiede Pisanu, «la mancata perquisizione del covo di Riina e la garanzia di una tranquilla latitanza di Provenzano che, proprio per questo e per prenderne il posto, avrebbe venduto il suo capo? E alla fin fine, quale sarebbe stato il guadagno dell’astuto mediatore Vito Ciancimino? Allo stato attuale della nostra inchiesta, non abbiamo elementi per dare risposte plausibili».
Le parole più forti di Pisanu, sono però dedicate alle stragi di Capaci e via D’Amelio. «Sulle scene degli attentati e delle stragi, abbiamo visto comparire, qua e là, figure rimaste sconosciute, presenze esterne: da dove venivano? Gruppi politico-terroristici come “Falange Armata” rivendicarono tempestivamente degli attentati di Cosa nostra: come si spiega?” dice il presidente della commissione Antimafia. Poi l’affondo ancora più duro: «Solo negli ultimi anni è stato scoperto il gigantesco depistaggio delle indagini su via d’Amelio, depistaggio che ha lungamente resistito al tempo e a ben due processi: chi lo organizzò e perché furono lasciati cadere i sospetti che pure emersero fin dagli inizi?».  È logico dubitare che la mafia agì da sola, chiude Pisanu. Ed è anche doveroso, come è stato doveroso da parte di procuratori coraggiosi pronti a sfidare fango e veleno piovuti a secchi dall’altre parte del muro di gomma, dove i colpevoli se ne stanno nell’ombra. Ci fu trattativa, e ora abbiamo bisogno di capire. Pennivendoli e politici di cui è lecito dubitare, prendano atto che oggi Pisanu ha aperto una crepa nel muro. È un uomo chi adegua il proprio pensiero alla realtà. E chi adegua la realtà al proprio pensiero è invece, nelle migliore delle ipotesi, un cretino.

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