Il discorso di Pisanu in commissione Antimafia è
di quelli che saranno ricordati nei prossimi anni per coraggio e voglia
di verità senza compromessi. E uno di quelli che in molti faranno finta
di non ricordare. «Noi conosciamo le ragioni e le rivendicazioni che
spinsero Cosa nostra a progettare e ad eseguire le stragi, ma è logico
dubitare che agì e pensò da sola», scolpisce il parlamentare a futura
memoria. C’è dunque spazio per il dubbio, il
sospetto è più che legittimo e sopportato da vicende sanguinose ed
enormi che gli italiani aspettano di conoscere da vent’anni. Sete di
giustizia e di verità da cui Pisanu, rara avis di una classe politica
preda di un garantismo peloso e di una smemoratezza dolosa, non fugge,
in virtù di un discorso schietto e veemente. «Possiamo dire che ci fu
almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato
politico e uomini di Cosa nostra divisi tra loro e quindi privi anche
loro di un mandato univoco e sovrano. Ci furono tra le due parti
convergenze tattiche, ma strategie divergenti: i carabinieri del Ros
volevano far cessare le stragi, i mafiosi volevano invece svilupparle
fino a piegare lo Stato». Ora che anche un personaggio del calibro
istituzionale di Beppe Pisanu lo dice chiaro e tondo sulla base delle
migliaia di carte analizzate dalla commissione Antimafia, sarà difficile
controbattere per i negazionisti di professione. Quanti da anni si
indignano nei talk show contro le Procure che vogliono riscrivere la
storia, prendano dunque atto: nonostante non si fossero degnati di
prendere atto di una miriade di evidenze processuali, la storia non è
stata riscritta da nessuno. Semplicemente perché non può essere
riscritta una storia che non è mai stata raccontata. E abbondantemente
occultata da scribacchini in malafede e attori smemorati che hanno
preferito dimenticare, se non depistare.
A conclusione dell’inchiesta sulle stragi del 92-93 da lui
presieduta, il parlamentare sardo afferma che «sembra logico parlare,
più che di una trattativa sul 41bis, di una tacita e parziale intesa tra
parti in conflitto». Ci furono dunque obiettivi differenti, spiega
dunque Pisanu, ma è innegabile che Stato e mafia trattarono da pari a
pari, e che nonostante una certa resistenza delle istituzioni al
papello, il potere ricattatorio della malavita organizzata fu lungamente
subito, o per lo meno accreditato al tavolo dei colloqui con le
istituzioni. Si voleva far deflettere lo Stato, anche se ancora non è
chiaro il limite oltre il quale non volle spingersi. «Piegarlo fino a
qual punto? All’accettazione del papello o di qualche sua parte?», si
domanda Pisanu, che su questo pare convinto che «a rigor di logica e a
giudicare dai fatti, non si direbbe. Se Cosa nostra accettò una specie
di trattativa a scalare, scendendo dal papello al più tenue
contropapello e da questo al solo ridimensionamento del 41bis,
mantenendo però alta la minaccia terrificante delle stragi, c’è da
chiedersi se il suo reale obiettivo non fosse ben altro: e cioè il
ripristino di quel regime di convivenza tra mafia e Stato che si era
interrotto negli anni Ottanta, dando luogo a una controffensiva della
magistratura, delle forze dell’ordine e della società civile che non
aveva precedenti nella storia. Certo, l’obiettivo era ambizioso, ma il
momento, come ho già detto, era propizio per la mafia e per tutti i
nemici dello stato democratico». Il presidente della commissione
Antimafia non allude dunque allo Stato in sè, ma a dei pezzi deviati
dello stesso che si sono arrogati il diritto di rappresentarlo con la
cooptazione di superiori compiacenti pronti a deviare il corso delle
cose in direzione di interessi spesso meschini.
La mafia, chiosa Pisanu, «di certo non prese ordini
da nessuno, perché ha sempre badato al primato dei suoi interessi e
all’autonomia delle sue decisioni. Tuttavia, quando le è convenuto,
quando vi è stata convergenza di interessi, non ha esitato a collaborare
con altre entità criminali, economiche, politiche e sociali». Anche
entità politiche, quindi, che Pisanu esemplifica nella partecipazione
della mafia in collaborazione con luminosi esponenti della massoneria al
golpe di Junio Valerio Borghese. O nella simulazione del rapimento del
finanziere Michele Sindona, che invece era gradito ospite dei divani
della borghesia mafiosa palermitana. L’intreccio tra eversione politica,
malavita e funzionari infedeli è raccontato così da Pisanu: «Dopo le
stragi del ’92 e ’93 gli analisti e i vertici degli apparati di
sicurezza colsero subito il mutamento della strategia mafiosa di
aggressione allo Stato e lo attribuirono a una convergenza di ‘interessi
macroscopici illeciti, sistemazione di profitti, gestione d’intese con
altre componenti delinquenziali ed affaristiche, nazionali ed
internazionalì,come disse il prefetto Parisi. Sulla stessa linea, un
rapporto della Dia del 1993, descrisse ‘un’aggregazione di tipo
orizzontale’ composta, oltre che dalla mafia, da talune logge massoniche
di Palermo e Trapani, da gruppi eversivi di destra, funzionari infedeli
dello Stato e amministratori corrotti».
E si arriva poi al capitolo più scabroso: la trattativa tra gli
uomini del Ros e Vito Ciancimino. Naturalmente chi conosce gli atti
processuali troverà nelle parole di Pisanu una semplice conferma, in
quanto il processo ha visto in Mario Mori una sorta di reo confesso che
agì in nome dello Stato, ma senza avere mandato ufficiale (anche perché
una carta intestata che lo delegasse a trattare con decreto governativo,
sarebbe stata un’iniziativa alquanto coraggiosa). «I carabinieri e Vito
Ciancimino hanno cercato di imbastire una specie di trattativa», annota
il presidente della commissione Antimafia. «Cosa nostra li ha
incoraggiati, ma senza abbandonare la linea stragista; lo Stato, in
quanto tale, ossia nei suoi organi decisionali, non ha interloquito ed
ha risposto energicamente all’offensiva terroristico-criminale», dice
Pisanu. Che precisa però come «nessuno dei vertici istituzionali del
tempo ha mai pensato di apporre il segreto di Stato su quelle vicende».
Di apporre il segreto non ci fu alcun bisogno, viene da dire. Perché
bastarono l’omertà e la reticenza. Ma allora che cosa furono le stragi
di mafia? Pisanu risponde che «se nel ’92-’93, similmente ad altre fasi
di transizione, si mise in opera una strategia della tensione, Cosa
nostra ne fece parte. O meglio, fu parte, per istinto e per consapevole
scelta, del torbido intreccio di forze illegali e illiberali che
cercarono di orientare i fatti a loro specifico vantaggio. Indebolire lo
Stato significava renderlo più duttile e più disponibile a scendere a
patti». Ma il parlamentare sardo spiega che lo Stato, quello non
infetto, alla lunga non si piegò. «Certamente con le stragi del 1992-93
Cosa nostra inflisse allo Stato perdite irreparabili di vite umane e
preziose opere d’arte, dimostrò la massima potenza di fuoco, ma segnò
anche l’inizio del suo declino». Ad avviso di Pisanu la mafia «si è
inabissata nella società, nell’economia, nella politica e da allora non è
più riemersa con la forza delle armi; la sua leadership è stata
decapitata e fino ad oggi non è neppure riuscita a ricostruire gli
organi di governo; i suoi affari hanno subito il salasso continuo dei
sequestri e delle confische dei beni; e in definitiva ha perso peso e
prestigio anche rispetto ad altre organizzazioni criminali nazionali,
come la ‘ndrangheta, tanto all’interno quanto all’estero». Una
ricostruzione questa. che stante le pagine di cronaca, ci permettiamo di
ritenere non del tutto condivisibile, visto che la mafia più placida,
ma certamente non vinta, si è spesso mescolata alla classe dirigente.
Bisogna ritenere infatti, alla luce di cronache giudiziarie lucidissime,
che forse la mafia non ha più avuto bisogno di sparare perché spartiva
la torta direttamente da padrone di casa, invece che da ospite. Sulla
trattativa, Pisanu aggiunge poi altre preziose annotazioni. Se da una
parte il presidente della commissione sente di escludere che «nella
trattativa non entrarono i vertici delle istituzioni», dai presidenti
del Consiglio Amato e Ciampi, di cui «non possiamo mettere in dubbio la
loro parola e la loro fedeltà a Costituzione e a Stato di diritto».
Pisanu rilancia «il sospetto che, dopo l’uccisione dell’onorevole Lima,
uomini politici siciliani, minacciati di morte, si siano attivati per
indurre Cosa nostra a desistere dai suoi propositi in cambio di
concessioni da parte dello Stato». E qui fa un nome preciso: «In
particolare Calogero Mannino, ministro per il Mezzogiorno nella prima
fase della trattativa (lasciò l’incarico nel giugno del 1992), avrebbe
preso contatti al tal fine col Comandante del Ros, il generale
Subranni». Su Mannino, ricorda Pisanu, «pende ora una richiesta di
rinvio a giudizio per il reato aggravato di minaccia ad un corpo
politico, amministrativo e giudiziario. Analoga richiesta, ma per un
periodo diverso, pende su Marcello Dell’Utri. Occorre anche ricordare
che Nicola Mancino, ministro dell’Interno dal giugno 1992 all’aprile
1994 è stato indicato, per sentito dire, dal pentito Brusca e da Massimo
Ciancimino come il terminale politico della trattativa. Il primo lo
indica stranamente associandolo al suo predecessore Rognoni che,
peraltro, aveva lasciato il ministero dell’Interno nel 1983, nove anni
prima dei fatti al nostro esame; il secondo è un mentitore abituale». E
poi Pisanu non risparmia una stoccata allo stesso Mancino che davanti
all’Antimafia «è apparso a tratti esitante e perfino contraddittorio. La
Procura di Palermo ne ha proposto il rinvio a giudizio per falsa
testimonianza». Su Mannino e Mancino Pisanu avverte che «una semplice
richiesta di rinvio a giudizio non può dare corpo alle ombre».
E molte ombre da dissipare restano anche su quel 15
gennaio del 1993, che vide l’arresto di Totò Riina, da molti reputato
piuttosto oscuro. Quale fu la contropartita della mafia? Si chiede
Pisanu, «la mancata perquisizione del covo di Riina e la garanzia di una
tranquilla latitanza di Provenzano che, proprio per questo e per
prenderne il posto, avrebbe venduto il suo capo? E alla fin fine, quale
sarebbe stato il guadagno dell’astuto mediatore Vito Ciancimino? Allo
stato attuale della nostra inchiesta, non abbiamo elementi per dare
risposte plausibili».
Le parole più forti di Pisanu, sono però dedicate
alle stragi di Capaci e via D’Amelio. «Sulle scene degli attentati e
delle stragi, abbiamo visto comparire, qua e là, figure rimaste
sconosciute, presenze esterne: da dove venivano? Gruppi
politico-terroristici come “Falange Armata” rivendicarono
tempestivamente degli attentati di Cosa nostra: come si spiega?” dice il
presidente della commissione Antimafia. Poi l’affondo ancora più duro:
«Solo negli ultimi anni è stato scoperto il gigantesco depistaggio delle
indagini su via d’Amelio, depistaggio che ha lungamente resistito al
tempo e a ben due processi: chi lo organizzò e perché furono lasciati
cadere i sospetti che pure emersero fin dagli inizi?». È logico
dubitare che la mafia agì da sola, chiude Pisanu. Ed è anche doveroso,
come è stato doveroso da parte di procuratori coraggiosi pronti a
sfidare fango e veleno piovuti a secchi dall’altre parte del muro di
gomma, dove i colpevoli se ne stanno nell’ombra. Ci fu trattativa, e ora
abbiamo bisogno di capire. Pennivendoli e politici di cui è lecito
dubitare, prendano atto che oggi Pisanu ha aperto una crepa nel muro. È
un uomo chi adegua il proprio pensiero alla realtà. E chi adegua la
realtà al proprio pensiero è invece, nelle migliore delle ipotesi, un
cretino.
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